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Il vecchio e il mare

Giampiero Ventura, l’allenatore più anziano della Serie A, è nato sugli scogli e ha sempre allenato in città marinare. Fino a Torino. Ha cambiato modo di far stare in campo la squadra, perché i moduli sono liquidi.

di Fabrizio Gabrielli

L’IF Brommapojkarna e l’RNK Spalato, le due squadre che hanno affrontato il Torino nei preliminari di Europa League, giocano le loro partite casalinghe in stadi accomunati da una caratteristica: se di colpo le loro gradinate diventassero trasparenti, dalla panchina si potrebbe vedere il mare.

Non può essere soltanto una coincidenza: Giampiero Ventura, 66 anni, l’allenatore più anziano della Serie A, artefice nella stagione passata del miracolo umile e tascabile grazie al quale i granata hanno riabbracciato l’Europa dopo un’assenza ventennale dalle competizioni internazionali, al mare ha legato a doppia mandata i propri destini. Dal mare proviene, al mare è tornato a più riprese, nelle tappe salienti della sua carriera. Ha allenato nelle quattro Repubbliche Marinare: Genova, sponda blucerchiata; Pisa; Venezia; il primo Napoli di De Laurentiis, in C, che non è Amalfi, ma insomma. E poi Lecce, Cagliari. Bari.

È cresciuto a Cornigliano – sobborgo genovese più da ballata operaia di Gaber che da elegia marinara di Faber – dove il padre aveva un negozio di alimentari. «Non ero né ricco né povero, né di qua né di là. Ma nulla mi ha mai parlato così forte come il silenzio di quella gente che entrava in fabbrica con la gavetta in mano». La linea dell’orizzonte, a Cornigliano, non è una scenografia da cartolina: le ciminiere di piombo dell’Italsider incorniciano file di metalmeccanici in attesa del turno serale. «Le mie emozioni di allora? L’avventura, il lontano. E quelle facce tristi che scandivano le mie sere. Il lontano era “fuori dal grigio”». Il grimaldello per scardinare la quotidianità è il calcio. «Un codice. Una scorciatoia per l’amicizia». Erano gli anni ’60, giocava nelle giovanili della Samp con Marcello Lippi e Domenico Arnuzzo; nel frattempo studiava ragioneria. Diplomato ha cominciato a frequentare l’Isef, a Milano, alternando gli impegni coi blucerchiati agli insegnamenti privati nelle palestre, per sbarcare il lunario. Poi, a soli venticinque anni, un grave infortunio alla schiena lo ha costretto a lasciare il gioco. Si è seduto in panchina, come vice di Giorgio Canali prima, poi di Lamberto Giorgis. La cosiddetta gavetta, prima di provare a farsi strada con le proprie gambe ad Albenga, Rapallo, La Spezia, Chiavari, dove tra i giocatori della Virtus Entella figurava un certo Luciano Spalletti. A ogni stazione della Riviera Ligure un’esperienza. Anche se solo quando si è avventurato nell’entroterra toscano, a Pistoia, nell’89, per prendere la guida di una nobile decaduta, con la possibilità di concepire e impostare un lavoro a lungo termine che gli permettesse di applicare le sue teorie, è avvenuto il primo scarto qualitativo. È là che Ventura, come gli piace ricordare, ha smesso di allenare ed è diventato un allenatore.

«Sono stato il primo a giocare con il 4-2-4, a Pisa» ha dichiarato una volta Ventura, «e Conte è stato onesto ad ammettere che si era ispirato a me». Si può parlare, tra i due, di qualcosa che abbia a che fare con il concetto di “legacy”

«Non parlo mai di schemi, ma sempre di proposte». È un passaggio significativo della sua tesi, presentata al termine del Corso Master per l’abilitazione ad allenatore professionista di prima categoria, nel ’95. Racconta, con eloquenza, il Ventura che era, che è e che probabilmente sarà. Dopo essersi lasciato alle spalle l’avventura alla Pistoiese – dove era rimasto per tre stagioni, la permanenza più lunga prima di Torino – era stato scelto da Zamparini per il suo Venezia. In Laguna ha adottato proposte di gioco sempre molto spettacolari, dinamiche, fluide, un 3-4-3 in cui i calciatori venivano stimolati a far “frullare” il cervello, prima della palla. Il Venezia, in due stagioni, ha eliminato dalla Coppa Italia la Fiorentina, sconfitto la Juventus, riempito il Pierluigi Penzo di spettatori entusiasti. Zamparini, chiaramente, lo ha esonerato. Lo stesso faranno Cellino, e De Laurentiis, «tutte persone di grandissima intelligenza; è sempre meglio avere a che fare con un delinquente che con un ignorante».

A Lecce, un’altra città costiera, Ventura ha guidato la squadra verso un doppio salto di categoria, dalla C alla A. Chiedendo e ottenendo – una cifra della sua carriera – calciatori funzionali non tanto a uno schema, ma alla sua idea di calcio: Palmieri, che aveva già avuto alla Centese; Bacci, con lui a Pistoia. Servidei e Centurioni conosciuti a Venezia. Semeraro gli aveva dato carta bianca, lui accentrava ogni decisione nelle sue mani: curava la preparazione fisica dei calciatori, uno per uno. «Le qualità di un giocatore sono come la coperta di un letto. I genitori danno la qualità del tessuto e l’elasticità della fibra. Il nostro lavoro deve essere mirato ad allargare la coperta senza rovinare le fibre». Per loro si è fatto insegnante, psicologo e confidente, fedele al ruolo di professore ricoperto nelle scuole per un ventennio. Lo stesso periodo che ha impiegato per sedersi per la prima volta, nel 1998, su una panchina della massima serie, nel Cagliari di Cellino (da Lecce se n’era andato subito dopo la promozione). «Prima di conoscerlo avevo un ciuffo alla Little Tony. Con lui ho perso tutti i capelli.». In Sardegna ha lanciato (o rilanciato) giocatori come Muzzi, Zebina, Vasari, Fabian O’Neill, «il più forte che ho allenato». La squadra produceva intrattenimento. E plusvalenze. Si divertivano i tifosi, gongolava la società, ma soprattutto gioivano i calciatori. Mettersi nei loro panni, stimolarli, motivarli («Prima ancora che arrivasse Obama, io scrivevo già sulla lavagnetta dello spogliatoio “Se vogliamo possiamo”») è sempre stato l’obiettivo prioritario dell’allenatore genovese.

Per un lungo periodo, durato quasi quattro anni, le idee e le sorti calcistiche di Giampiero Ventura e Antonio Conte, neo tecnico della Nazionale, si sono sovrapposte e congiunte in un flusso inestricabile. Le traiettorie disegnate in campo dagli uomini di Ventura, come sulla carta carbone, si materializzavano sul blocco degli appunti di Conte, e di riflesso sul rettangolo verde. Centrali di difesa che impostavano l’azione, un centrocampista di fatica affiancato da uno più tecnico capace di verticalizzare per ali veloci, o centravanti molto mobili. «Sono stato il primo a giocare con il 4-2-4, a Pisa» ha dichiarato una volta Ventura, «e Conte è stato onesto ad ammettere che si era ispirato a me». Credo si possa parlare, tra i due, di qualcosa che abbia a che fare con il concetto di legacy. A Pisa Ventura era arrivato nel 2007. Alle spalle aveva accumulato più di un lustro di delusioni. La più cocente nel ’99, quando era tornato nella sua Genova per guidare la Samp a una promozione in A che invece non era riuscito a raggiungere. Nella sua maniera d’intendere il ruolo di allenatore, però, in quella stagione era avvenuto un ulteriore avanzamento verso la piena realizzazione del Venturismo. Era nato il sodalizio con un team di collaboratori stretti, fidati, una squadra che in buona parte è ancora al suo fianco: il preparatore atletico Innocenti, o l’allenatore dei portieri Zinetti. E poi Carmelo Palilla, che aveva già avuto come giocatore: ne aveva fatto il suo vice. «Io, Palilla, Innocenti e Zinetti siamo un’impresa che costruisce calcio a tempo pieno».

Sulla panchina dei nerazzurri toscani, qualche stagione prima di Ventura, si era seduto anche Antonio Toma. Toma ha avuto una carriera da calciatore piuttosto bizzarra: tanto talentuoso quanto incompiuto, non si è mai allontanato per più di quaranta chilometri dal Salento e da una dimensione semidilettantistica, nonostante la fama dei suoi numeri – ancor prima che le sue sbalorditive apiladas venissero tramandate da YouTube – lo precedesse. MaraToma, così era soprannominato, disponeva le sue squadre in campo con un arrogante e iperoffensivo 4-2-4, il modulo per antonomasia adottato dalla Grande Ungheria. Con il 4-2-4 hanno giocato il Brasile di Flavio Costa nel giorno del Maracanaço, e pure il São Paulo di Bela Guttman. Vicente Feola, al Mondiale svedese del ’58, l’aveva fatto suo ritagliandolo come un sarto addosso a Didì, Vavà, Pelè e Garrincha.

A quasi mezzo secolo di distanza, in Italia, i cultori di quello schema votato all’attacco si contavano sulle dita di una mano, e allenavano tutti nelle serie minori. L’Ezio Glerean della seconda parentesi a Bassano, Antonio Toma nella sua esperienza pisana. Oltre, ovviamente, a Ventura. E poi, appunto, ad Antonio Conte, che a Bari come allenatore in seconda – e curatore della fase difensiva – aveva scelto di affiancarsi proprio Toma.

Con il Bari ha disputato la miglior stagione in A in tutta la storia dei galletti. Si è impegnato affinché la sua creatura somigliasse almeno un po’ alla sua squadra preferita: il Barcellona di Cruyff

A Pisa Ventura ha sfiorato i play-off, nell’anno dell’esplosione di Alessio Cerci, un giovane arrivato dalla Roma con l’ingombrante incombenza di dover per forza somigliare a Titì Henry. Due stagioni dopo ha ereditato, proprio da Conte, il Bari. Il giorno della sua presentazione il direttore sportivo dei pugliesi, Perinetti, lo ha definito «una spregiudicata certezza». Ventura ha scatenato l’entusiasmo rilasciando una dichiarazione che ha presto assunto i connotati del motto: «Alleno per libidine, per sentirmi dire dai miei calciatori che con i miei schemi si divertono». Con il Bari ha contribuito all’esplosione di giocatori come Guberti, Ranocchia, Bonucci, ha disputato la migliore stagione in A in tutta la storia dei galletti. Si è impegnato affinché  la sua creatura somigliasse almeno un po’ alla sua squadra preferita di sempre, il Barcellona di Cruyff: «Una squadra con un filo conduttore: essere, e sapere». «Non ho discepoli; molti si ispirano, ma io non sono un profeta. Il calcio è fatto di idee che non hanno età». Le idee, si sa, sono fatte per essere cambiate in corsa. Come scriveva Julio Cortázar, «solo gli imbecilli non cambiano opinione tre volte al giorno». Non è una questione di coerenza. I moduli sono liquidi, interpolabili, intercambiabili. La filosofia di un allenatore, invece: quella sì che è immarcescibile. Non può soffrire le contingenze del momento, non si fa risucchiare dalle tendenze, dalle mode. Conte ha abbandonato il 4-2-4 dopo poche partite alla guida alla Juventus, quando l’acquisto di Vidal – e le da subito ottime prestazioni – lo hanno spinto a ricercare un modulo confacente alle caratteristiche dei suoi calciatori migliori.

Anche Ventura, dal suo arrivo a Torino nel 2011, ha dimostrato di saper mantenere una condotta coerente con la sua idea di calcio, pur tradendo lo schema tattico di riferimento, quel 4-2-4 che lo aveva reso celebre da Pisa in avanti. Dopo una stagione trionfante in B, il modulo del Torino ha cominciato così a subire una metamorfosi che si è cristallizzata, nell’ultimo anno, in un 3-5-2 cangiante, pronto a trasformarsi, in fase difensiva, in un 5-3-2. È anche grazie a questo camaleontismo che Ventura, a Torino, è riuscito a conquistare il miglior piazzamento della sua carriera, l’affetto del pubblico, e a riconquistare il ritorno in Europa. Dopo le prestazioni entusiasmanti del Cagliari 1998, che sono valse a Ventura il Guerin d’Oro come migliore allenatore della stagione, il suo nome era preso a girare come possibile sostituto dell’esonerato Marcello Lippi sulla panchina della Juventus. Poi venne scelto Carlo Ancelotti.

Anni dopo, in un’intervista, gli è stato chiesto dove sarebbe potuto arrivare se avesse avuto l’opportunità di sedere sulla panchina di una “grande”. «Io sono uno che viene dal mare», ha risposto. «Il mare è silenzio, riflessione, gioia, a volte angoscia; romanticismo, energia. È tutto». E ha continuato «Nel mare, i se, se li portano via le onde».

 

Ritratto di Karin Kellner, dal numero 2 di Undici