Attualità

La strada per l’Open

Diario dall'Australian Open, parte I - Le qualificazioni dei journeymen, gli allenamenti di Djokovic, i non luoghi, l'attesa per l'inizio.

di Fabio Severo

Inizia, con questa prima puntata, un diario in cinque parti dall’Australia, ovviamente a tema tennistico. Per raccontare non tanto le partite di cartello, quanto piuttosto la fauna giornalistica, i tennisti prima e dopo il match, il pubblico, l’entusiasmo, i piccoli gesti quotidiani; quello, insomma, che le cronache non dicono.

 

Arrivo a Melbourne Park per ritirare il mio accredito di sabato, nel giorno del terzo e ultimo turno di qualificazioni dell’Australian Open (AO). Il tabellone del singolare di un torneo del Grande Slam prevede 128 giocatori, di cui 104 accedono direttamente in virtù della loro classifica mondiale, 8 tramite wildcard che dànno accesso diretto nonostante il ranking insufficiente, e 16 tramite le qualificazioni, che a loro volta rappresentano un mini torneo di tre turni con un tabellone di 128 giocatori. Lascio l’ufficio accrediti munito di asciugamano ufficiale, ventilatore portatile e borraccia omaggio e mi ritrovo in un intrico di campi secondari da cui proviene il suono di decine di palline colpite quasi all’unisono, dietro teloni e piccoli spalti semivuoti.

Passare il turno e accedere al tabellone principale dell’AO rappresenta la differenza tra incassare o meno 27600 dollari australiani (circa 21700 Euro), che significa la sopravvivenza per l’esercito dei journeymen, i tennisti di bassa classifica che viaggiano costantemente da un torneo all’altro per provare a far quadrare i conti. Molti sono i privilegi tipici di una partita di tennis negati a questi scontri tra gregari: i campi sono uno dopo l’altro, privati di quell’isolamento acustico proprio dei match di cartello. Non ci sono neanche gli uscieri a dirigere il traffico degli spettatori, per impedire l’accesso durante le fasi di gioco: persino gli addetti alle pulizie ogni tanto transitano tra le file di seggiolini, scavalcando ostacoli con gli scopettoni in mano.

La prima impressione di Melbourne Park visto dal di dentro è l’incapacità di trarne un’immagine complessiva, un’atmosfera che leghi un luogo all’altro. Vista dal tram che ferma di fronte a uno degli ingressi per gli spettatori, l’area si presenta come una sequenza di astronavi di piccole e medie dimensioni poggiate a terra una accanto all’altra: i tre stadi principali, Rod Laver, Hisense Arena e Margaret Court Arena, accompagnati dall’altro lato della ferrovia dal Melbourne Cricket Ground e dall’AAMI arena, un ammasso di bolle di metallo schiacciate una sopra l’altra, dove si tengono le partite della National Rugby League e altre amenità sportive e/o musicali.

Ma l’impressione di grandezza del fuori si tramuta dentro in una serie di non luoghi a raccordare un campo da tennis con il successivo, non c’è nessun’edera a ricoprire i muri come a Wimbledon, nessun segno di un vero culto della tradizione dei nobili gesti. L’unica eccezione è rappresentata da due file di busti scuri in un piazzale pieno di chioschi e tavolini, raffiguranti i grandi del tennis australiano: Rod Laver, Ken Rosewall, Evonne Goolagong, Pat Cash e molti altri. Dopo decenni di trionfi, l’Australia da molti anni non produce un tennista capace di vincere. Samantha Stosur ha vinto sì l’US Open nel 2011, ma viene quasi più ricordata per la sua lunga serie di sconfitte improbabili che per i successi, soprattutto qui a Melbourne, dove su dieci partecipazioni ha raggiunto gli ottavi di finale solo due volte. Persi tra il merchandising ufficiale e i bagni chimici, i busti delle vecchie glorie sembrano soffrire dell’imbarazzante situazione, hanno tutti uno sguardo vuoto, congelati in un sorriso tirato che ricorda il volto di Han Solo intrappolato nella grafite ne L’Impero Colpisce Ancora.

Raggiungo la media room sotto la Rod Laver Arena, uno stanzone riempito da file di desk ognuno dei quali, per un totale di 265, è munito di uno schermo su cui vengono trasmesse le dirette, e dove per il momento si alternano campi vuoti, battaglie tra i proletari qualificandi e allenamenti dei giocatori già in tabellone. Lascio la media room per andare verso la sala delle conferenze stampa, dove trovo Novak Djokovic, che è simpatico e cordiale nelle sue risposte, sorride e guarda negli occhi, e con lieve disappunto non trovo riscontri per l’odio profondo che provo mentre lo vedo giocare in TV. Djokovic è l’espressione perfetta del tennis moderno, lontano dal romanticismo da gesti bianchi: il suo gioco rappresenta una fusione spaventosa di condizione atletica, tenuta mentale e solidità tecnica. Nessun ricamo o tocco geniale, ma è proprio questa la cosa che lo rende così terrificante: esegue tutto in modo assolutamente efficace, demolendo i piani offensivi dell’avversario con un’elasticità inumana in fase difensiva, e chiudendo senza pietà non appena riceve una palla non troppo profonda.

Djokovic prosegue con qualche risposta in serbo e poi lascia la sala a Serena Williams, che arriva mentre non c’è praticamente nessun giornalista in sala. Uno dei pochi presenti fa una domanda per tenerla lì: “Do you feel like you’re playing the best tennis of your life?”. La risposta è di un’evidenza desolante: “My goal is to do as best as I can”. Dopo più di un anno lontano dai campi per vari infortuni, Serena è tornata a vincere praticamente qualsiasi cosa dallo scorso aprile, indifferente a età (31) e nuove avversarie. Età che invece è l’ossessione dedicata a Roger Federer (31 anche lui), che si presenta in Rolex e una tuta grigio chiara che ricorda vagamente un pigiama. “I’m still here”, risponde all’ennesima domanda sulle sue strisce infinite di partecipazione a tornei. Le esequie di Federer da parte della stampa sono una litania che dura da anni. È vero che c’è del sibillino da parte sua sugli obiettivi della stagione 2013 quando la definisce “transitional year”, quasi a dire che vada come vada. Federer quest’anno a Melbourne ha il tabellone più difficile tra i top players, e molti giornalisti assaporano l’idea dei pezzi che potrebbero scrivere se il Maestro uscisse presto dal torneo.

Riesco finalmente a entrare nella Rod Laver Arena, infiltrandomi in un corteo di fotografi scortato dentro per l’allenamento di Lleyton Hewitt, vincitore di Wimbledon nel 2002 e ormai beniamino di casa a fine carriera. L’interno dello stadio si presenta come un rettangolo dagli angoli smussati che avvolge dolcemente il campo, tempestato da sedie di diverse tonalità di verde che ricordano la trama di una corteccia d’albero. Scopro poi che l’alternanza delle tonalità serve a attenuare la sensazione degli spalti vuoti, ed effettivamente lo stadio attorno a me non sembra vuoto, ma semplicemente privo di persone. L’addetto stampa ci raduna di nuovo dopo dieci minuti, Djokovic si sta allenando nella Hisense Arena, il secondo stadio in ordine di grandezza.

Entro nella Hisense in un deserto ancora più assoluto che nella Rod Laver Arena, mi scuso mentalmente per il cigolio dei gradini mentre scendo tra gli spalti e mi siedo in alto dietro a Djokovic, che sta giocando con il connazionale Victor Troicki. Il gioco di Troicki è fatto di schemi semplici e pochi colpi, si potrebbe dire che Troicki come giocatore sia interamente contenuto dentro Djokovic, che fa semplicemente tutto uguale, ma tutto molto meglio. Ma nella partitella di oggi Troicki sbaglia di meno e attacca di più, e rimango un po’ deluso di non vedere Djokovic demolirlo come fa abitualmente. Mentre concludo questo pensiero qualcuno della sicurezza mi si avvicina con un sorriso dispiaciuto, mi dice che Novak non gradisce che io stia lì seduto a guardare, mi fa un cenno come a dire che sono capricci da divo e usciamo insieme.

Rientro nella media room e incrocio Gianni Clerici vestito praticamente come Neo di Matrix, e capisco che il torneo sta davvero per cominciare.