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La leva calcistica della classe ’70

A 44 anni non solo si può avere ancora voglia di giocare a calcio, ma si può anche continuare a risultare decisivi nelle partite giocate coi ventenni. I casi Deflorio, Aruta, Taccola, Scugugia e Pierobon (che però è del 1969).

di Fulvio Paglialunga

A un certo punto hanno pensato di ritirarsi. Poi hanno deciso che era presto per la pensione. Il fisico regge, la voglia, nei giorni di inazione, è aumentata e poi forse c’è ancora spazio su un campo, piuttosto che ai giardinetti. Così, un gruppo di quarantaquattrenni sparsi per l’Italia ha scelto di tornare a giocare a calcio. Quasi contemporaneamente, senza passarsi parola. Come fosse stato un richiamo comune, quello del campo e non del denaro, perché non hanno avuto carriere banali e hanno scelto all’improvviso di aggiungerne un altro po’, tra i dilettanti, dove è possibile ancora divertirsi. Dove è persino possibile essere competitivi e dunque sfidare il tempo e l’età. Ha ri-cominciato Andrea Deflorio, classe 1970, proprio domenica: con il Pisticci Marconia, sconfitto dal Lavello in casa, in Eccellenza Lucana, sette anni dopo aver chiuso la carriera. In una squadra che è una fusione tra un comune di diciassettemila abitanti (Pisticci) e la sua frazione (Marconia), prima divise dal pallone e ora insieme. Non ce l’ha fatta a restar fermo, avendo ancora classe da esibire: Deflorio è uno dei giocatori migliori visti in Lega Pro negli ultimi quindici anni almeno, per qualità propria e per la disarmante discrezione dell’uso del talento.

Ha fatto per una vita cose difficili camuffandole da semplici, senza esibizionismo nemmeno involontario. E si è anche appuntato record sul petto: ventotto gol in una stagione, come gli riuscì a Crotone, (con il quale ha disputato le uniche due stagioni da maturo in B) nel 2000, non sono stati ancora eguagliati da nessuno. Il suo girovagare è partito dalla provincia barese ed è finito nella sua città, a Noicattaro (sempre nel barese) nel 2008. In mezzo una sfilza di piazze calde e stagioni in doppia cifra, il soprannome di Cobra per alcune movenze e il suo modo di alzarsi con il pallone e tenere la testa alta per fare la scelta giusta.

Sono solo buoni ricordi che evidentemente da vecchio attaccante saranno rimasti tatuati, al punto da convincerlo a ritornare anche mentre insegna calcio ai bambini. C’è la gamba, la porta è rimasta uguale, non c’è modo di veder invecchiare la classe e allora si può, mal che vada sarà un altro bel ricordo lasciato di sé.

L’eleganza della carriera di Andrea Deflorio è tutta nell’impossibilità di trovare una città delle tante girate nella quale ci sia un risentimento anche minimo: sono solo buoni ricordi che evidentemente da vecchio attaccante saranno rimasti tatuati, al punto da convincerlo a ritornare anche mentre insegna calcio ai bambini. C’è la gamba, la porta è rimasta uguale, non c’è modo di veder invecchiare la classe e allora si può, mal che vada sarà un altro bel ricordo lasciato di sé.

Eredità del tutto differente ha invece ha lasciato “in giro” Sossio Aruta, altro ragazzo del 1970, uno con la sregolatezza che soffoca il genio, e che più volte è diventato antipatico persino al suo pubblico, per un comportamento sempre al di sopra di tutto, per quelli scatti per lui naturali e non sempre graditi. Sossio Aruta da novembre gioca nella Scafatese, in Eccellenza. Ancora in forma, in gol da subito, perché uno che ne ha segnati più di trecento non dimentica certo come si fa. Aruta è uno di quei calciatori dei quali si dice che con una testa diversa dalla propria sarebbero diventati stelle, ma del loro limite hanno fatto un marchio di fabbrica. Ha girato in tutte le categorie tranne la serie A e la Terza Categoria, ha giocato ovunque e anche in tv (nel Cervia di Campioni, il primo reality ambientato nel mondo del pallone) e persino in Champions, per un turno preliminare con il Tre Fiori, squadra di San Marino, cambiando squadra quasi ogni anno, a volte anche a ogni finestra di mercato, ma segnando sempre, facendosi notare comunque e mettendo insieme un curriculum che, cercandolo su Internet, non sta in una sola schermata. Il “Re Leone”, soprannome che arriva da lontano e sancito con l’animale tatuato sul deltoide sinistro, si è fatto notare ai tempi del Cervia per le liti con Ciccio Graziani (che – dicono – a volte lo teneva fuori perché le sfuriate della punta erano “televisive”), è stato preso di mira dalla Gialappa’s per l’uso dell’italiano meno pratico di quello del pallone e per mille altre stravaganze, compresi i pon pon che aveva sui calzettoni con cui giocava, cuciti dalla madre. Compreso il campo, ancora, a 44 anni, mentre nella sua Castellammare insegna calcio ai bambini. Magari chiedendo di non prendere esempio.

Chissà quanto è forte il richiamo del pallone se a un certo punto Mirko Taccola, azzurro alle Olimpiadi di Barcellona e campione d’Europa Under 21, dopo essersi fermato un po’, sceglie di continuare a giocare in Seconda Categoria, con l’Acquacalda San Pietro a Vico, dalle parti di Lucca e non troppo lontano da casa, dove gestisce un negozio di abbigliamento con la moglie. Taccola è, ovviamente, del 1970 come Deflorio e Aruta, ma non è attaccante: è un difensore (stopper, quando si poteva dire) e, altra differenza con gli altri due, ha giocato molto in serie A, tra Pisa, Inter, Napoli, Cagliari e persino in Grecia, nel Paok Salonicco, e in Portogallo, oltre ai campionati di B e Lega Pro sempre da protagonista. A Taccola è andata bene, ma poteva andare meglio: a Napoli (dove era arrivato dall’Inter nell’operazione che portò Benny Carbone in nerazzurro), ad esempio, maledì Gigi Simoni perché pensò di rischiarlo contro il Milan, a ottobre, mentre già si stava ambientando a fatica, inventando una difesa a cinque con anche Crasson, Baldini, Ayala e Milanese. Taccola era il quinto, con il compito di seguire in ogni movimento George Weah: fu un errore di valutazione, perché Taccola non aveva quel passo e Weah fece due gol (il Milan vinse 3-1, a San Siro). Resta una tappa importante di una carriera, ancora non finita, che non poteva essere normale, era chiaro sin dal luogo di nascita: Calci.

Sarà stata una buona annata, il 1970. Pure Gianbattista Scugugia ha deciso di giocare ancora un po’: nel Romagna Centro, in serie D, squadra di Martorano (frazione di Cesena). Non ha mai smesso, in estate si è persino aggregato al raduno dei calciatori senza contratto a Coverciano, come fosse un ventenne rimasto a terra e non un ultraquarantenne, seppur ancora sano e ancora con tanta voglia di giocare, con l’obiettivo di farlo fino a cinquant’anni. Difensore centrale, qualche gol, un po’ di serie A con Cesena e Cagliari, molto serie B e Lega Pro e gli ultimi anni tutti in D, senza scendere oltre la soglia. Al Romagna Centro ha scelto di passare a novembre, dopo un flebile tentativo rinnegato con il Tre Fiori a San Marino (la squadra che ha portato in Champions Aruta, per dire). E anche gli ultimi anni non ha ragionato da calciatore in età avanzata che preferisce rimanere vicino casa, ma è andato dove c’è spazio per giocare: proprio come un ragazzo.

Alla categoria degli intramontabili è iscritto anche Andrea Pierobon, che però è del 1969 e che è il giocatore più anziano in attività del calcio italiano, tra i professionisti. Perché gioca in serie B, è il secondo portiere del Cittadella (che è anche la squadra della sua città) e a sorpresa è stato schierato titolare nella partita con il Modena. Una presenza, al posto del ventiseienne Alex Valentini. Ogni volta che entra in campo aggiorna il record, diventato suo lo scorso 29 marzo, quando ha difeso i pali del Cittadella ad Avellino a 44 anni, 8 mesi e 10 giorni. Un gol, contro il Modena, lo ha subito (finale 1-1) sebbene senza colpe. Ma provate voi, a giocare tra ragazzi in cerca di gloria, a quarantacinque anni. E fermarli, pure.

 

Nell’immagine in evidenza: Andrea Pierobon, portiere del Cittadella.