Attualità

La fisica di Stephen King

Leggere Revival attraverso la teoria del piano inclinato e capire perché la definizione di «re del brivido» allo scrittore americano sta stretta.

di Jacopo Cirillo

Stephen King ha scritto un nuovo libro. Dopo oltre sessanta opere tra romanzi e racconti, il Maestrissimo ne ha fatta un’altra delle sue con Revival, uscito il 17 marzo scorso in Italia per Sperling&Kupfer, come al solito, e tradotto da Giovanni Arduino, come al solito. Revival è uno dei suoi migliori romanzi degli ultimi anni, addirittura più di Doctor Sleep, ma non siamo qui per dire questo, è abbastanza scontato. Anche raccontare la trama sembra poco interessante: in seconda di copertina c’è scritto quello che bisogna sapere per farsene un’idea e per tutto il resto c’è solo il sedersi belli comodi, aprire il libro e tenersi liberi almeno per i tre giorni successivi.

Parliamo d’altro, allora. Di Stephen King ci sono due cose che mi fanno abbastanza ridere, ma di un riso amaro. La prima è che nella maggior parte dei suoi libri, lo strillo in copertina è sempre lo stesso, dal Venerdì di Repubblica: «Un grande della letteratura. Uno straordinario scrittore». La seconda è che, quando viene menzionato negli articoli e nelle recensioni varie, per non ripetere troppo il suo nome tutti lo chiamano SEMPRE «il re del brivido», come se fosse uno che abita in una vecchia capanna piena di spifferi. Ecco, secondo me, a partire da questi due aspetti, si riesce a spiegare bene come funzionano i libri di King e perché Revival sia così bello, anche questa volta.

La teoria del piano inclinato

Semplificando in maniera orrendamente antiscientifica, se prendiamo un piano inclinato e una biglia e facciamo scorrere la biglia sul piano inclinato, la stessa biglia accelererà sempre di più e, se il piano inclinato è lungo all’infinito, la biglia accelererà all’infinito fino a diventare, non so, velocissima. Ma c’è un inghippo: la superficie del piano, di solito, è scabra, ovvero subisce l’azione della forza d’attrito che frena la biglia, alterandone il moto rettilineo. Secondo me, la narrazione di King funziona come la teoria del piano inclinato e la biglia sono i nostri occhi, metafora e sineddoche della nostra lettura, che accelerano sempre di più lungo le righe e le pagine. Si tratta di capire adesso se e quanto siano scabre le sue pagine. Ma partiamo dall’inizio.

La narrazione di King funziona come la teoria del piano inclinato e la biglia sono i nostri occhi.

Ho sempre pensato che la letteratura sia un fatto privato tra il libro e i lettori e che sia insita, in qualche modo, nella loro relazione. Quindi per fare letteratura bisogna leggerla e per parlare di letteratura bisogna parlare di esperienze di lettura. Da qui, poi, uno può dedurre tutti gli aspetti e le caratteristiche del libro in sé, senza che chi ne scrive sia costretto a parlarne.

L’esperienza di lettura di King è fantastica e terribile e Revival – non è rilevante se sia fatto apposta o meno – sembra costruito davvero come un piano inclinato che permette e incoraggia uno scorrimento oculare secondo un moto rettilineo uniformemente accelerato. Inizia piano, con piccole storie di piccole vite in un piccolo paese del Maine, poi aumenta, i personaggi crescono – sia di età che di spessore – le storie si complicano, si espandono e si universalizzano, partendo da temi comuni e arrivando a concetti totali come il bene e il male, la vita e la morte, la luce e le tenebre. E l’occhio segue questa accelerazione e la velocità di lettura aumenta sempre di più e le pagine scorrono sempre più veloci mentre la storia sale di colpi vorticosamente, ormai hai preso la rincorsa e non riesci a fermarti. Non vuoi fermarti. E poi ancora e ancora e ancora finché non arrivi alla fine, chiudi quel maledetto aggeggio infernale fatto di carta e inchiostro e tiri un sospiro di sollievo. Dopo due minuti, però, ne vorresti leggerne ancora, ma poco male: tra sei mesi ne uscirà un altro e, se proprio non ce la fai ad aspettare, il Re ne ha scritti una sessantina prima di questo.

Fin qui, ci siamo. Adesso bisogna capire perché e, soprattutto, quand’è che interviene l’attrito, quand’è, cioè, che la pagina diventa scabra. Spoiler: mai. E su due livelli, uno interno e uno esterno al testo.

Livello interno

La scrittura di King non concede attriti, non si ferma mai a ragionare su se stessa, non si ripiega, non si descrive e non si celebra. Se un personaggio deve fare le scale, fa le scale, non ricorda un pastore che porta al pascolo le sue pecore. Le scelte lessicali sono semplici, naturali, le parole sono giuste e sempre al posto giusto, nel pieno insegnamento calviniano della sua crociata contro l’antilingua, quell’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato”. In qualche modo è la storia che racconta se stessa, liberandosi dell’impiccio delle figure retoriche e del compiacimento verso il modo in cui viene messa in discorso. L’inerzia non c’è, la scrittura è liscia, l’occhio non si ferma, non indugia, non riflette su nient’altro che non sia la successione logica di eventi, presentati nel modo più semplice e trasparente possibile.

Livello esterno

La scrittura di Stephen King è inaggettivabile, non si può dire praticamente nulla attorno a essa. Ecco perché lo strillo del Venerdì di Repubblica si reitera così spesso nella sua banalità. «Un grande della letteratura. Uno straordinario scrittore.» E che altro vorresti dire? Niente, non c’è nient’altro da dire sulla sua scrittura, non c’è un’inerzia da lessicalizzare. Nei libri di King c’è tutto e la maledizione che quel pover’uomo si porta dietro dalla nascita – l’essere continuamente attraversato e ossessionato da migliaia e migliaia di storie che lo costringono a vomitare continuamente narrazioni – lo porta a magnificare talmente tanto ogni singola backstory di ogni singolo personaggio da creare un mondo completo e perfettamente funzionante (e si capisce benissimo, per esempio, leggendo It o 22/11/’63). Ma se i libri di King sono tutto, allora la sua scrittura deve essere niente. E niente è, infatti. Per fortuna.

«Un grande della letteratura. Uno straordinario scrittore.» E che altro vorresti dire? Niente, non c’è nient’altro sulla sua scrittura.

Moscacieca

Ogni volta che qualche non kinghiano mi chiede con quale libro di King iniziare, rispondo sempre allo stesso modo: immagina di essere bendato e di trovarti in una libreria piena solo di suoi romanzi e raccolte. Procedi a tentoni e prendine uno a caso dal mazzo. Qualsiasi libro il fato ti porti a scegliere, quello è il perfetto libro di King con cui iniziare. Sembra una boutade ma è tutto vero. Certo, ci sono i più belli – L’ombra dello Scorpione, Quattro dopo mezzanotte, Stagioni diverse – e i meno belli – Joyland – ma non conta. Sono gusti. Grazie alla mancanza di attrito nella sua scrittura, i libri di King sono le storie di King e sono tutte meritevoli di essere conosciute e raccontate all’aperitivo con gli amici.

RevivalMa il genere? Revival fa cagare sotto dalla paura, soprattutto nelle ultime cento pagine, quando uno dei due protagonisti, un vecchio fuori di testa che fa esperimenti strani con l’elettricità, decide che è arrivato il momento di combinarla davvero grossa. Tuttavia non mi sentirei mai di parlare di King come «il maestro del brivido» o «il re dell’horror». La riduttività di queste definizioni farebbe elegantemente rotolare nella tomba il Carmelo Bene che diceva: «Mentre gli altri giocano a tennis, Edberg, a mio avviso, è sempre stato il tennis». Mentre gli altri scrivono i libri, King, a mio avviso, è sempre stato i suoi libri. King non scrive libri horror, né libri da brivido o thriller, gialli, noir o quello che vuoi. King scrive libri “alla King”, è assurto a genere letterario non tanto e non solo per l’estrema varietà degli argomenti che tratta (c’è un racconto bellissimo in Incubi & deliri in cui, semplicemente, racconta una partita di baseball) quanto per la sua completa identità con le sue storie, senza la scrittura – e, dunque, la costruzione artefatta – di mezzo. I libri di Stephen King sono Stephen King e nessun essere umano, men che meno un genio di tal calibro, può essere ridotto a un genere o a un carattere. Nessun essere umano può essere ridotto a nulla, se è per questo.

In Revival, per esempio, si capisce bene. C’è l’America degli anni ’60, la chitarra, il rock and roll con tutti i pezzi che iniziano in mi, il protagonista che, alla fine, dopo tutto lo sbattimento che ha passato, si può «gustare tutte le cinque stagioni di The Wire», c’è l’elettricità, la religione, l’eroina, la perdita della fede, i primi limoni nelle feste del liceo, libri antichi e misteriosi come il De Vermis Mysteriis, uno dei sei Volumi Proibiti conosciuti sotto il nome di «grimori», il testo più pericoloso mai esistito al mondo. C’è gioia e tristezza, divertimento e abbacchiamento, paura e coraggio, insomma, tutto il cucuzzaro. Chiamare Stephen King «il re del brivido» è come chiamare chiamare James Joyce il re dello stream of consciousness o Ronaldo (quello vero) il re del doppio passo. Un po’ riduttivo, se ci pensi.

Three way

C’è un vecchio romanzo di King, scritto ancora sotto lo pseudonimo di Richard Bachman, che si chiama L’occhio del male. La storia è semplice: un uomo estremamente grasso mette sotto in automobile una vecchia zingara e, visto che ha gli agganci giusti, la cosa viene insabbiata dalle autorità. Solo che un amico della spiaccicata lo maledice pronunciando «Dimagra» e questo inizia a perdere peso. Ogni giorno, qualche chilo in meno. All’inizio gli prende anche bene, vista la sua stazza, poi però, come si intuisce facilmente, inizia a preoccuparsi. Ora, a partire da questi dati iniziali, i finali possibili sono due: o il protagonista muore per consunzione o riesce in qualche modo ad annullare la maledizione. In realtà, il libro finisce in un terzo modo totalmente inaspettato e, apparentemente, imprevedibile rispetto alle premesse.

Chiamare King «il re del brivido» è come chiamare Joyce il re dello stream of consciousness. Un po’ riduttivo.

Questa è una roba che King sa fare molto bene e che fa molto bene pure in Revival. Ma parliamo prima ancora un po’ di fisica. La forza peso che agisce su un corpo di massa m che si muove lungo un piano inclinato liscio si può scomporre in due componenti, una parallela al piano (P//) e una a esso perpendicolare (P). Dunque il nostro occhio-biglia che accelera sempre di più è la risultante di due forze:

– orizzontale (P//): il concatenamento logico di avvenimenti che si incastrano perfettamente l’uno con l’altro;
– verticale (P): le backstory, le parentesi, le divagazioni di costume, gli approfondimenti, la costruzione di un mondo.

Io penso che questa dinamica sia legata al modo in cui King riesce a costruire un sistema di aspettative di genere senza usare gli stilemi del genere stesso, passando per il superamento delle etichette e la sua progressiva identificazione con quello che scrive. La costruzione della suspense è rotolante: una successione logica di avvenimenti (P//) rinsaldati da  P attorno ai raccordi tra quegli stessi avvenimenti. L’occhio-biglia inizia ad accelerare senza attrito, è tutto liscio, tutto ovvio, un affresco dove ogni cosa è al suo posto. E l’occhio accelera sempre di più perché gli sono stati dati tutti gli strumenti lessicali e narrativi per farlo, e si sente sempre più sicuro e padrone di ciò che sta leggendo, quasi tronfio nella sua sicumera. E poi arriva quello che mi verrebbe da chiamare colpo di scena finale ma che colpo di scena non è: sembra piuttosto un pensiero laterale, una terza via non ancora battuta ma che scaturisce naturalmente dall’incontro delle due forze euclidee di cui sopra. Noi non ce l’aspettiamo mai perché la rassicurante e meravigliosa fluidità di tutte le pagine precedenti ci ha imborghesito e ci ha fatto dimenticare con chi stiamo facendo i conti, con un genio assoluto nel raccontare storie.

Un sacco di gente dice spesso di non leggere King perché fa paura e loro vogliono dormire tranquilli, di notte. Ecco, non è vero. O, meglio, King fa anche paura, ma ci sono così tante altre cose, dentro ai suoi libri, che rinunciarvi solo per qualche spiffero di vento mi sembra davvero, davvero, un attentato alla bellezza del mondo e di tutti i multiversi.