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Il miglior Ibrahimovic di sempre

Il più forte nella squadra più forte di Francia. Non ha mai segnato così tanti goal e così tanti goal belli. Ritratto di Zlatan Ibrahimovic, un giocatore profondamente unico.

di Giuseppe De Bellis

Per chi se lo stesse chiedendo, sì, questo è il miglior Zlatan Ibrahimovic di sempre. Mai così tanti gol e mai così decisivo, detto di uno che decisivo lo è sempre stato, a suo modo. Con la tripletta di domenica a Tolosa sono 37 gol in stagione in 36 partite. Come se giocasse nel cortile di casa con gli amici di sempre che per non farlo deprimere per non essere stato coinvolto nella lista dei tre finalisti del Pallone d’Oro dopo la sua miglior stagione prima di questa, lo facessero segnare di proposito: sfogati, amico, sfogati. Gioca sui campi della Ligue 1 francese, su quelli della coppa di Francia e su quelli di Champions. Per i primi due, il concetto di cortile di casa si avvicina molto alla realtà, nonostante in molti stiano provando a dimostrare la competitività del calcio francese. Però 10 gol in Champions sono tanti davvero, quanti non ne aveva fatti prima in una sola stagione. Il suo record personale complessivo finora era stato del 2011-2012 con 35 gol in 44 partite nel Milan e di 35 gol in 46 partite l’anno scorso nel Psg. Qui ci sono altre 12 giornate di campionato, almeno tre partite di Champions (dando per scontato che il Psg passi il turno dopo aver vinto 4-0 la partita d’andata) e quindi c’è la possibilità di staccare se stesso di quanto basta per rendersi inarrivabile. Il che fa molto Ibrahimovic, uno che ha uno spirito competitivo fuori dal comune e soprattutto ce l’ha declinato al singolare pur facendo uno sport di squadra.

l Paris Saint-Germain è la sublimazione del suo status: una squadra troppo forte per un campionato mediocre e nella quale il più forte dei forti è lui.

La Francia gli ha regalato la sua definitiva immortalità pallonara e non dev’essere proprio casuale. Perché ci voleva un campionato di seconda fascia bassa per realizzarsi completamente. Non è un controsenso, è solo il senso di Zlatan. Il quale è quel tipo di giocatore che adora essere il migliore a prescindere. Cioè: si sente il migliore di tutti, ma non ha l’esigenza di superare gli altri alla sua altezza per sentirsi arrivato. Il Paris Saint-Germain è la sublimazione del suo status: una squadra troppo forte per un campionato mediocre e nella quale il più forte dei forti è lui. Perché si sapeva che Cavani non avrebbe mai retto all’urto del confronto e si sapeva anche che Ibra l’avrebbe sistemato subito: Parigi non è Napoli e non ci vuole moltissimo a capirlo.

Zlatan gioca a un livello pazzesco. Domenica, sul secondo gol, ha reso semplice un colpo di testa con la porta alle spalle. È questo che rende il suo periodo il migliore di sempre: segna più che mai con una qualità che neanche lui aveva mai avuto. In una stagione calcistica ti ricordi uno, due gol di ciascuno dei giocatori più forti. Si parla di gol meravigliosi, ovvio. Sopra la media di un bel pezzo. Negli ultimi dodici mesi di Ibrahimovic te ne puoi segnare almeno quattro. Si parla dei gol successivi a quello, sì, a quello di Svezia-Inghilterra del novembre 2012 che è stato premiato come gol più bello dell’anno al Fifa Puskas Award. Ce l’avete presente, per forza: Hart che lo anticipa di testa al limite dell’area, lui che si fa scavalcare dal pallonetto del portiere, si gira e girandosi guarda la porta, poi si lancia col movimento della rovesciata e colpisce la palla un po’ scomposto, non pulito, non armonioso, ma con un movimento che sembra perfetto per quella giocata (questo ovviamente dipende molto dal risultato finale), quindi diventa un contro pallonetto in rovesciata sbilenca che entra in porta. Qualcosa di strano, di diverso, di insolito, di unico. Giustamente qualcuno, come Daniele Manusia, s’è chiesto se sia davvero un bel gol, nell’accezione comune di “bel gol”: «È una rovesciata? Un pallonetto da centrocampo in rovesciata? Un pallonetto da centrocampo con colpo da kung-fu rovesciato? Qualsiasi descrizione non sarà all’altezza del gesto in sé e forse l’unico pensiero sensato al riguardo può essere: “non ho mai visto una cosa del genere prima e probabilmente la vedrò mai più”». Ecco, per molti, probabilmente anche per gli stessi che l’hanno votato come il gol del 2012-2013, questa è in assoluto la miglior giocata di Ibrahimovic. Se gli togli la spettacolarità e anche quella sconfinata dose di fortuna che ci vuole a far entrare in porta una palla così, ti ricordi però che Ibra ha fatto anche di meglio e, al netto dei gusti personali e delle preferenze, c’è un gol che è oggettivamente meraviglioso. L’ultimo con la maglia dell’Ajax, a quanto risulta. Semplice nella descrizione, quasi impossibile nella realizzazione: sei avversari superati, portiere saltato, tiro, gol. «Sette, uno l’ho superato due volte», ha detto lui descrivendolo qualche tempo fa.

Allora sì, questo è il miglior Ibrahimovic di sempre. Sempre parlando del senso di Ibra per se stesso: cioè, non è mai stato così incredibilmente unico nel suo genere.

Comunque tutto questo serve per dire che Zlatan di gol che restano nella memoria ne ha fatti diversi, ma quest’anno ne sta facendo diversi nella stessa stagione. Due contro l’Anderlecht: il colpo di tacco (o qualcosa che si avvicina) e un tiro da fuori area che non è soltanto un tiro da fuori area, ma è di più, perché c’è una palla che vaga dopo una respinta della difesa, lui arriva in corsa da 22-23 metri, aspetta che il pallone scenda poi lo colpisce di collo pieno e gli dà un giro a rientrare che non sai se è voluto o no, ma è stupendo per traiettoria, forza, rotazione.

Poi c’è il gol al Bastia. Quello che hanno chiamato il colpo dello scorpione con una definizione tanto brutta, quanto imperfetta. È un colpo di tacco al volo, forse il vero colpo di tacco al volo, con la palla che arriva quando il giocatore è più avanti della traiettoria del passaggio e per andarla a colpire deve appunto usare l’unica parte del colpo con cui potrebbe, forse, prenderla facendola andare in avanti. Ecco, Ibra lo fa con una scioltezza che è quasi irritante. L’ultimo, per ora, è quello nell’ultima partita di Champions, a Leverkusen: un altra palla che rotola dopo una sponda di Matuidi, Zlatan la colpisce di sinistro, passa tra le teste di tre avversari e va all’incrocio.

Allora sì, questo è il miglior Ibrahimovic di sempre. Sempre parlando del senso di Ibra per se stesso: cioè, non è mai stato così incredibilmente unico nel suo genere. Un giocatore diverso da Messi e da Ronaldo per tipo di colpi e approccio al gioco e allo sport. Lo trasforma nell’uno contro tutti: gol, assist, spettacolo, forza, classe, sfida, botte, tutto funzionale a se più che a tutto il resto. Il risultato è la fine di un duello tra lui e gli altri. Vince perché è forte, tecnico, potente, furbo, infame. Perché sente il pallone sotto i piedi e nel cervello. È arrogante, calcisticamente. Più degli altri campioni che sono arroganti per obbligo statutario, perché senza l’arroganza non diventi il numero uno. Ma la sua è diversa. È tracotanza. I gol e il modo in cui li fa ne sono lo specchio fedele.

Quella scena di lui che bacia la maglia del Barcellona il giorno della presentazione al Camp Nou è stata per molto tempo la sua dannazione. A dire la verità quello è stato il suo punto di forza.

Forse ce ne è uno che lo rappresenta ancora di più di quelli da fantascienza di cui abbiamo già parlato: è uno segnato alla Roma, all’Olimpico, quando giocava nella Juventus, uno stop di tacco sbagliato che diventa un colpo suo, col pallone che finisce in alto, ma davanti, e allora lui e il difensore, attaccati, uniti, spalla contro spalla, gomito contro gomito, vediamo chi è il migliore. Più veloce lui, più bravo lui, quello si aggrappa per buttarlo giù e invece resiste, allora quello si trascina per terra, s’affloscia come un barbapapà sformato. Ibra va, solo, veloce, poi vede la porta e la mette di esterno, forte e precisa dall’altra parte. Le azioni così gli piacciono da morire, gli danno forza, convinzione, coraggio, perché dimostrano che non è vero quello che sosteneva qualcuno: «Zlatan è l’uomo degli assist». Era l’etichetta che si portava addosso dall’Olanda e che ha cercato di smentire, riuscendoci, da quel momento in poi. Perché il numero dei gol è aumentato e aumenta ancora, complice l’arrivo in Francia e anche una posizione in campo più centrale nel gioco e nella possibilità di concludere. Complice anche la più banale delle osservazioni: c’è un’intera squadra che gioca per lui.

L’essere rimasto a Parigi per il secondo anno consecutivo ha calmato per il momento i critici dello Zlatan che cambia troppo spesso squadra. Quella scena di lui che bacia la maglia del Barcellona il giorno della presentazione al Camp Nou è stata per molto tempo la sua dannazione. A dire la verità quello è stato il suo punto di forza. Ovvio e comprensibile che non la pensino così i tifosi delle squadre che ha lasciato. L’Inter in quel caso, ma lo stesso vale per la Juventus abbandonata dopo Calciopoli, per il Milan lasciato per i milioni del Psg. Però cambiare è stata la miglior garanzia di ottenere ciò che voleva ottenere. Soldi e risultati. È stato anche uno degli elementi determinanti che gli ha permesso di vincere ininterrottamente almeno un trofeo per dieci anni consecutivi, dal 2001 al 2011. È antiromantico, Ibrahimovic: toglie l’ipocrisia, annulla il sentimentalismo. Passa per essere un irriconoscente. Senza attenzioni e riguardo, senza rispetto. Un giorno rilasciò un’intervista a Libero e fece un casino infinito. Gli chiesero dell’Inter che aveva appena perso la prima finale di Coppa Italia a Roma, 6-2: «Una grande squadra non può prendere sei gol in una partita, neanche quando manca la motivazione. Servono tre rinforzi per l’anno prossimo (…). Quelli della Triade della Juventus li hanno fatti fuori perché vincevamo troppo: questione di gelosia».

«Quali sono le giocate semplici? Io quando provo a fare certi colpi, non mi sembrano particolarmente complicati. Forse lo sono per altri, ma non per me. E allora qual è la differenza fra le cose facili e quelle difficili?»

Sincero tra i falsi, oppure falso tra i puri: lui dice di non dover dare giudizi morali sul mondo del pallone, di difendere i dirigenti che l’hanno portato nel calcio italiano. In Nazionale s’è rifiutato per due volte di essere convocato dopo che i commissari tecnici l’avevano punito per aver infranto le regole. C’era una partita con il Liechtenstein: Ibra la sera prima uscì con i compagni di Mellberg e Willhelmesson. Night fino alle 4:30, niente alcol, niente altro, solo tardi. E chissenefrega del Liechtenstein. Furono messi fuori squadra tutti e tre. Ingiusto per Zlatan: «Non si può convincere qualcuno che non si senta motivato». Non si può se è Ibrahimovic. Perché non si è mai fatto imporre niente, neanche l’assioma di Koeman che nell’Ajax pretendeva che dopo due tocchi la passasse per forza ai compagni. Non c’entra niente lo stile di vita. È corollario, accessorio, marginale. Zlatan è individualista per carattere e convinzione anche calcistica. Diverso da tutti gli altri della sua specie. È il gusto della sfida, del duello, del combattimento. Guarda come esulta dopo il colpo di tacco contro il Bastia: ha la faccia di chi dice “adesso che cosa avete da dire? Ho fatto una giocata che nessun altro fa”. Il risultato viene dopo, è uno strumento, non il fine. È il ribaltamento della prospettiva del calciatore, o di quella che immaginiamo sia la prospettiva del calciatore: «Spesso mi dicevano, e ancora mi dicono, di fare le cose facili perché così posso diventare ancora più forte. Ma quali sono le giocate semplici? Io quando provo a fare certi colpi, non mi sembrano particolarmente complicati. Forse lo sono per altri, ma non per me. E allora qual è la differenza fra le cose facili e quelle difficili?».

 

Nella foto, Zlatan Ibrahimovic durante Real Madrid – Paris Saint-Germain, amichevole di luglio 2013. Martin Rose / Getty Images