Attualità

Il crepuscolo

Dopo le semifinali, in attesa della fine, la terra rossa di Parigi si fa malinconica come gli ultimi giorni di estate. Una carrellata di diapositive.

di Fabio Severo

Quarta (e penultima) puntata del diario narrativo dal Roland Garros. In fondo all’articolo, i link per i primi tre episodi della serie.

Adesso che si avvicina la fine del torneo e la realpolitik della competizione decide l’esito di quasi tutti i turni finali, un’ombra di malinconia mi coglie per le sconfitte degli artisti e degli eroi minori, piegati dalla costanza e dall’infallibilità di esecuzione dei candidati alla vittoria finale. I quarti maschili ad esempio hanno visto quattro sfide tra un rovescio a una mano e uno a due mani, terminate con il risultato di dodici set a zero per i bimani (come li definisce colui che qui dall’altoparlante chiamano “Giovanni Clerici”). Spossato dai confronti impari in corso mi rifugio al bar della stampa, e con una bière blanche in mano osservo su due schermi Tv i match in questione, Djokovic – Haas e Nadal – Wawrinka, dove il serbo e lo spagnolo giustiziano i due rispettivi contendenti e le loro geometrie ambiziose, punendoli per i loro scarsi margini di errore e la fretta di uscire dal logorante scambio a cui li invitano su ogni punto.

Tsonga è un’affascinante fusione di estro e potenza, ma tende a avere lo spirito della cicala che canta d’estate, mentre sulla strada rimasta fino alla finale ci sono solo formiche diligenti.

In verità un fantasista è rimasto ancora in gioco, il francese Tsonga, che ha battuto Federer con grande facilità. Il presagio dell’esito di quella partita l’ho avuto dopo pochi game, quando un bambino ha cominciato a piangere all’improvviso; mentre la mamma cercava di portare via dagli spalti i suoi singhiozzi disperati, proprio al picco del crescendo di quel lamento Federer ha messo un dritto facile in rete. Neanche mezz’ora dopo Tsonga provava con successo palle corte direttamente in risposta al servizio dello svizzero. Il resto si è svolto piuttosto velocemente. Tsonga è un’affascinante fusione di estro e potenza, ma tende a avere lo spirito della cicala che canta d’estate, mentre sulla strada rimasta fino alla finale ci sono solo formiche diligenti, sempre piene di provviste per gli inverni dei loro match. Ovviamente, al di là che Tsonga sia francese e qua ci sperano, è il giocatore più divertente tra quelli rimasti, e la sua vittoria finale sarebbe un po’ un riscatto della bellezza sul pragmatismo.

Messo di fronte al mio poco professionale disappunto, simile a quello che si prova per le storie che non finiscono mai bene, decido di occuparmi di facezie preparando una lista di desiderata per l’ufficio stampa, e usando la formula magica “dietro le quinte” provo a farmi schiudere le porte segrete del Roland Garros. La risposta molto veloce e efficiente mi mette però di fronte a una serie di barriere invalicabili, dimezzando l’itinerario della mia esplorazione: “Spogliatoi: impossibile, area relax giocatori: impossibile, palestra:impossibile, centro statistiche del torneo: impossibile”. Mi accontento di quel che resta, cominciando dal player’s lounge: dietro all’ingannevole nome seducente si nasconde il ristorante dei giocatori e dei loro entourage, dove i giornalisti possono entrare, alcuni in ogni momento, quasi tutti solo dietro consegna dell’accredito e ricevendo in cambio una fascia da mettere al braccio. Entro e mi dirigo al bancone del bar, accanto a me arriva Adriano Panatta che chiede un caffè, specifica “petit”, come sempre facciamo noi italiani con la fobia dei bibitoni che qui ti rifilano sotto falsi nomi. Il dress code del lounge presenta una netta prevalenza del bianco e di maglioncini poggiati sulle spalle, vedo famiglie con bambini bellissimi e pensosi, poi diversi conciliaboli che sanno di pianificazione del futuro di possibili promesse, si parla molto spagnolo e italiano. La fauna afferente al mondo tennistico presenta sempre coloriti da villeggiatura, occhi chiari e riposati, è uno dei pochi ambienti dove la classica polo a nido d’ape la fa ancora da padrone. Bianchi i vestiti, bianco l’arredamento, bianco il colore della pelle di quasi tutti i presenti (sotto l’abbronzatura), bianchi i pantaloni, chi non conversa amabilmente maneggia palmari di varie taglie e fogge. Va molto di moda la barba di due-tre giorni, che ben si accompagna al passare molto tempo all’aperto. Ora che quasi tutti i professionisti se ne sono andati a casa gironzolano per le sale tennisti sconosciuti, quasi tutti junior, che con le loro borsone e completi sgargianti sembrano tigrotti da safari, catturati dai vari individui con fare da tycoondello sport con cui intrattengono conversazioni piene di sorrisi e affabilità.

Sono state accordate 3613 racchette dall’inizio del torneo, con un totale che si prospetta supererà le 3700; i giocatori pagano per il servizio di stringing ma si portano i loro set di corde. Gli incordatori sono sempre lo stesso team che viaggia per tutti e quattro i tornei del Grande Slam.

Poi è la volta del laboratorio degli incordatori, dove scopro una serie di cose inutili facendo domande a una ragazza dai grandi occhi azzurri: al momento della nostra conversazione sono state accordate 3613 racchette dall’inizio del torneo, con un totale che si prospetta supererà le 3700; i giocatori pagano per il servizio di stringing ma si portano i loro set di corde. Gli incordatori sono sempre lo stesso team che viaggia per tutti e quattro i tornei del Grande Slam, i momenti più difficili sono durante la prima settimana, quando a mezz’ora dall’inizio delle partite quindici giocatori ti chiedono di incordare all’istante le loro racchette. Sorrido e le chiedo qual è la cosa più buffa o assurda che sia capitata in queste due settimane, lei sbatte le lunghe sopracciglia e mi risponde in modo assolutamente inespressivo: “Mi hanno già fatto questa domanda, non so proprio cosa rispondere”. Me ne vado provando un lieve senso di disagio.

Vado a bussare al compound degli arbitri, dove spero di scoprire i segreti occulti di una professione che mi ha sempre affascinato. Più che altro perché quando gioco non ricordo mai dove sia il segno della palla appena caduta, e stare su un seggiolone alto più di tre metri, scendere di corsa e andare in un punto preciso a otto-nove metri da te per individuare un segno minuscolo prodotto da una palla che viaggiava a 200 km/h, il tutto magari per placare un giovane uomo con gli occhi spiritati che andrà sotto match point a causa della tua decisione, insomma mi sembra una faccenda complessa, a livello balistico e psicologico. Scopro che lo staff arbitrale del torneo è composto da 310 persone, di cui 270 giudici di linea e 40 giudici di sedia, da una selezione di più di 700 che hanno fatto domanda. Ho sempre immaginato che la formazione per osservare la palla e per saper trattare con giocatori incazzati neri passasse per training simil-scientifici, con allenamenti su dei simulatori indossando occhiali speciali, e corsi di piscologia comportamentale sui gesti da fare e da non fare, sui toni di voce da adottare per inviare messaggi subliminali al cervello dolente dei tennisti sotto pressione. Ma sembra tutto più semplice: molti match, molta pratica, qualche indicazione sul dover spostare in anticipo lo sguardo dalla traiettoria della palla alla zona in cui andrà a cadere, per poter osservare il momento dell’impatto, e soprattutto un’accurata lista di quali giudici di sedia non accoppiare mai con certi tennisti.

Maria ha battuto in semifinale Victoria Azarenka, nel duello dei rantoli e dell’agonismo più incarognito, tra strilli, cappuccio e cuffie alle orecchie all’ingresso in campo, pugni stretti che immagini le unghie affondare nel palmo, in un altalenante 6-1, 2-6, 6-4. Serena ha invece demolito Sara Errani 6-0, 6-1 in 46 minuti.

Dulcis in fundo vado dal parrucchiere dei giocatori (a disposizione anche dei coach e, solo per alcuni, anche di amici e parenti), dove faccio una serie di domande ridicole da cui apprendo che vengono effettuati circa 500 tagli a torneo, il servizio è omaggio, sia Flavia Pennetta che la moglie di Federer sono passate lì in questi giorni, molti vengono giusto a farsi fare uno shampoo o un massaggio rilassante e poi che no, quando viene uno famoso per la gentile parrucchiera con cui parlo non c’è nessuna differenza, perché bisogna essere professionali nello stesso modo, in ogni momento.

Quel che resta del Roland Garros prevede tra le altre cose la finale femminile, che si giocherà sabato tra Maria Sharapova e Serena Williams. Maria ha battuto in semifinale Victoria Azarenka, nel duello dei rantoli e dell’agonismo più incarognito, tra strilli, cappuccio e cuffie alle orecchie all’ingresso in campo, pugni stretti che immagini le unghie affondare nel palmo, in un altalenante 6-1, 2-6, 6-4. Serena ha invece demolito Sara Errani 6-0, 6-1 in 46 minuti. Confronto impossibile quello tra le due: 11 cm di differenza in altezza, il servizio più veloce di Serena nel match 199 km/h, quello di Sara 152, 40 vincenti a 2, 5 ace a 0, 52 punti contro 16. Anche la finale appare abbastanza prevedibile, Maria non vince contro la Williams dal 2004. Poi ci sono le semifinali maschili: Nadal – Djokovic, ovvero la teoria della forza inarrestabile contro l’oggetto inamovibile, che qui potrebbe tradursi in una maratona ai limiti della fisiologia umana; poi Ferrer-Tsonga, dove il francese dovrà far valere le sue doti circensi contro la sindrome da cane da riporto dello spagnolo, altrimenti ci sarà una finale inutile, e noiosa.

Seduto al binario della metro, il volto di Carla Bruni mi fissa dal manifesto gigante della pubblicità di un nuovo modello di cuffie senza fili: lo sguardo che vorrebbe essere seducente ma risulta sadico, la pelle spianata da un pallore digitale, una chitarra che fa capolino. Che qui si possa concepire una simile pubblicità denota una sconfortante assenza di ironia, che mi fa temere anche per la fine del torneo.

 

Prima puntata: Rossa terra di Parigi

Seconda puntata: Tennis bagnato

Terza puntata: Panem et circenses