Attualità

Il calcio ai confini del calcio

Ai Mondiali in Brasile partecipano 32 squadre: ma che ne è delle oltre 150 che non accedono alla fase finale, gli outsider più outsider del mondo del calcio? La storia delle Samoa Americane, la nazionale più scarsa di sempre, che ha perso (un record) 31-0 nel 2001 e che non aveva mai vinto una singola partita. Fino alle ultime qualificazioni.

di Davide Coppo

“Periferia”, secondo la definizione del vocabolario Treccani, è «la parte estrema e più marginale, contrapposta al centro, di uno spazio fisico». Siamo abituati a pensarle immaginando la geografia piatta di una città, dove periferie sono quelle zone più vicine ai confini della città, prima dell’inizio della campagna, o dei monti, o del non-più-città. Cosa sono le periferie, se parliamo di Terra, e quindi di sfera? Qual è il centro a cui si contrappone? È sempre lo stesso centro da centinaia di anni a questa parte, un centro deciso dal colonialismo che ha creato anche le periferie, che periferie sono rimaste anche nel Ventunesimo secolo. Questa divisione si applica alle economie, alle stabilità politiche, spesso alle libertà religiose e civili. E questa divisione si applica anche al calcio.

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La ventesima Coppa del Mondo ospitata dal Brasile nel 2014 comprende 32 nazionali. Le squadre che hanno provato a qualificarsi erano 204, più di sei volte tante. La prima partita dell’Italia, e la prima di molte altre squadre ai cui nomi, gloriosi o modesti, il nostro orecchio è ben abituato, si è giocata nel settembre 2012. Altre nazionali meno celebri hanno iniziato il percorso verso il Mondiale del 2014 esattamente un anno dopo il Mondiale sudafricano del 2010, ovvero nella primavera del 2011. Sono nazionali come Tonga, Samoa Americane, Montserrat, Curaçao Isole Cook, Palestina, Eritrea, Afghanistan, Rwanda, Haiti (e molte altre ancora), sono le peggiori nazionali di calcio del mondo, nessuna di loro vedrà mai un Mondiale in un futuro prossimo a meno di improbabili miracoli, quasi nessuna di loro ha strutture calcistiche adeguate al professionismo, molte non giocano le partite “in casa” davvero in casa, ma in paesi limitrofi disposti all’ospitalità. Molte, ovviamente, non hanno giocatori professionisti, e alcune non hanno nemmeno giocatori nati nella nazione per cui giocheranno. Questo è uno dei punti più importanti del calcio alla periferia del calcio: l’eredità coloniale.

Quelli che in Italia chiamiamo oriundi e per cui molti italiani storcono il naso (per dubbi di appartenenza patria, “Italia agli italiani” e altre strane idee) sono, in paesi come Haiti o Montserrat, la regola e la norma piuttosto che l’eccezione. Decenni di dittature, invasioni, colpi di stato e pulizie etniche, guerre tribali o guerre civili hanno spopolato, dai Caraibi all’Africa Orientale, quello che viene sempre meno definito come Terzo Mondo, che coincide con i paesi meno sviluppati calcisticamente, che coincide con i paesi che prima dell’indipendenza non esistevano, pezzetti di Imperi coloniali sprofondati nel Novecento o poco prima. La diaspora novecentesca del colonialismo si è sparsa in tutto il mondo e sono nati figli inglesi, francesi, spagnoli e cileni da madri caraibiche, africane, mediorientali. Quando nazioni come Haiti o Montserrat hanno avuto bisogno di creare una nazionale di calcio che fosse il più competitiva possibile, hanno guardato alle fatiscenti strutture casalinghe, ai quasi inesistenti campionati nazionali, poi hanno guardato all’Europa, a volte all’America del Nord e del Sud. Hanno mandato osservatori, a volte l’allenatore stesso della squadra, a cercare nelle leghe minori quelli che da quelle parti non chiamano semplicemente “oriundi” o “naturalizzati”, ma cose come “i figli della diaspora”, a indicare e sottolineare un legame di sangue esistente e non un noiosa opportunità burocratica, come per dire: due generazioni di separazione dalla patria non cancellano le vere origini. Di alcune di queste nazionali lo scrittore inglese James Montague ha seguito i pochi passi percorsi nel 2011 e a volte nel 2012, ha scritto i resoconti di partite eroiche o sconfitte banali, di trasferimenti avventurosi, speranze, delusioni, spogliatoi, panorami, stadi e mendicanti nel libro Thirty-One Nil – On the road with football’s outsiders: a World Cup Odissey. Tra le storie che Montague mette in scena, dalle Antille agli altopiani di Kabul, dall’Eritrea al Kosovo a Thaiti all’Ungheria, quella che spicca e dà il nome al libro (Thirty-One Nil, ovvero: Trentuno a Zero) è quella delle Samoa Americane, un arcipelago di cinque isole e due atolli sbriciolato nell’oceano Pacifico, a sud del mondo, molto a ovest dell’Australia e a est di tutto, su quella spina dorsale curva oceanica intorno a cui sono nate, nei millenni, le isole che chiamiamo Nuova Zelanda, Tonga, Samoa (ex Samoa Tedesche), Wallis et Futuna, Fiji, poco distante da altri frammenti di terra emersa come Isole Cook, Tuvalu, Polinesia Francese, Tokelau. Le Samoa Americane sono un “Territorio non incorporato”: significa che la loro sovranità è limitata, non fanno parte della federazione degli Stati Uniti d’America eppure il loro presidente è Barack Obama (ma il governatore è Lolo Letalu Matalasi Moliga). Hanno 55.000 abitanti e una capitale, Pago-Pago, di poco meno di 5.000 anime. Producono giocatori di football americano professionisti come nessun altro stato federale (attualmente sono 50 i samoani in Nfl) ma – l’assurdità della vecchia pratica di compravendita di territori è anche questa – sono a 12.000 Kilometri da Washington D.C., 24 ore di volo con Hawaiian Airlines.

La nazionale calcistica delle Samoa Americane, una rappresentativa di isolani sovrappeso e qualitativamente molto scarsi, senza lode ma senza troppa infamia, almeno senza un’infamia da ricordare, un’infamia da posteri, nell’aprile del 2001 vola a Coffs Harbour, New South Wales, per la terza partita del round di qualificazione mondiale dell’Oceania. Il girone è composto da Australia, Fiji, Tonga, Samoa e Samoa Americane, e le prime due partite degli isolani – dei “nostri” isolani – sono finite 13-0 (contro Fiji) e 8-0 (contro Tonga). Sono le prime partite di qualificazione della giovanissima nazionale samoana. Alla terza, quando le statistiche della piccola classifica recitano già zero gol fatti e 21 subiti, l’Australia segna il record mondiale di gol fatti (vittoria più larga) sulla pelle dei samoani: 31 a zero. Ora l’infamia di quei 31 gol subiti è l’involontario ma naturale biglietto da visita di ogni samoano americano. A subire quei gol, in realtà, non è stata davvero la nazionale samoana. C’era stato un problema burocratico prima dell’inizio della partita: tutta la nazionale samoana americana aveva passaporti samoani (non americani), e non poteva essere schierata. La nazionale Under 20 stava affrontando una sessione di esami scolastici, e a sua volta, in un grottesco gioco di imprevisti, non poteva scendere in campo. La Football Federation American Samoa è stata costretta, per non perdere la partita senza scendere in campo, a far giocare dei giovanissimi calciatori, molti dei quali 15enni, molti dei quali non avevano mai, nella vita, affrontato un’intera partita di 90 minuti. L’unico superstite – l’unico con un passaporto samoano americano valido – dell’originale nazionale maggiore era Nicky Salapu, il portiere, che raccoglierà per 31 volte il pallone alle sue spalle. Nelle immagini Salapu, all’epoca ventunenne, è goffo e disorientato (sembra che nessuno gli abbia insegnato “il senso della posizione”) e si muove sulla linea tarantolato e in preda al panico. Fa qualche buon intervento, concede molti gol imparabili (la difesa samoana è letteralmente inesistente) e molti altri per sue colpe. All’89° minuto, quando David Zdrilic segna il 31-0, Salapu cade sdraiato a terra, sfinito fisicamente e mentalmente, e ci si chiede come mai abbia aspettato proprio il 31° gol prima di lasciarsi andare al più umiliante sconforto che un calciatore professionista abbia mai provato nella storia dello sport.

Tra tutti i ruoli che il gioco del calcio comprende, quello del portiere è probabilmente il peggiore da impersonare durante e dopo una sconfitta per 31-0. Se l’attaccante, il centrocampista o il difensore possono essere esentati da una qualche particolare colpa – quella del 5-0, o quella del 17-0 – in quanto lontani dall’azione, per Nicky Salapu è impossibile: ogni singolo gol è transitato davanti ai suoi occhi per fermarsi dietro la sua nuca, come un proiettile che lascia un segno eterno nel muro che ha scalfito. È stato Nicky Salapu il giocatore su cui, dieci anni dopo, il nuovo allenatore delle Samoa Americane ha dovuto lavorare di più psicologicamente. È anche l’unico giocatore della nuova nazionale samoana americana superstite da quel 31-0, e Thomas Rongen, ex allenatore degli Stati Uniti U-20 e nuovo coach dell’arcipelago, l’ha fatto tornare in campo a più di trent’anni (e quando Nicky si era già ritirato) per difendere la porta delle Samoa Americane nel primo turno di qualificazione alla Coppa del Mondo del 2014, iniziato – per squadre come Samoa Americane, Samoa, Isole Cook e Tonga – già nel novembre 2011. In Thirty-One Nil James Montague riprende alcune frasi di Rongen – che ha allenato in Major League Soccer dalla sua fondazione nel 1996 e ha portato gli Under nordamericani ai Mondiali di categoria per due volte, ed è un olandese magro e nervoso, con i capelli bianchi e la faccia severa da colonnello – a proposito del suo primo impatto con i suoi nuovi calciatori. «Non voglio umiliare nessuno» ha detto «ma non ho mai visto un livello così basso nel calcio internazionale. Ho preso in mano questa squadra e c’erano cinque ragazzi letteralmente di quindici o venti chili sovrappeso». A novembre 2011, prima dell’arrivo di Thomas Rongen, la nazionale delle Samoa Americane ha giocato trenta partite, perdendo ogni volta. Ha segnato dodici volte, subendo più di 200 gol. È ultima e solitaria nella classifica Fifa.

«Questo ragazzo ha dei veri demoni dentro di sé» dice Rongen di Salapu, demoni nati dopo il 31-0 che l’hanno fatto quasi impazzire.

«Questo ragazzo ha dei veri demoni dentro di sé» dice Rongen di Salapu, demoni nati dopo il 31-0 che l’hanno fatto quasi impazzire. Demoni che hanno lasciato «cicatrici incredibili» in Salapu e in tutto il team, in tutta la nazionale e in tutto l’arcipelago delle Samoa Americane: una mentalità perdente, spiega Rongen, la mentalità di qualcuno che non ha mai vinto, di qualcuno che ha sempre perso «non 2-1, o 3-1», ma di qualcuno che viene preso «a calci in culo regolarmente». Demoni che hanno portato Nicky, come ha confessato, a esorcizzare quel giorno mettendo in piedi surreali partite tra Samoa Americane e Australia a Fifa su X-Box, in cui staccava il controller all’avversario per far vincere la sua nazionale 40, o 50 a zero. Oltre a Salapu, il portiere, nel nuovo team preparato da Rongen nelle tre settimane che ha avuto a disposizione c’è un altro giocatore del tutto particolare, unico non solo nelle Samoa ma in tutto il mondo. Si chiamava Johnny Saelua, ora si chiama Jaiyah, sarà il primo giocatore professionista transessuale a giocare una partita internazionale. Nella cultura samoana e polinesiana lo status di transgender è accettato in quanto tradizione: Jaiyah è una Fa’afafine, persone samoane solitamente nate con caratteri maschili che si identificano, successivamente, nel genere femminile. Jaiyah, in campo, è uno dei giocatori più talentuosi, quello che possiamo definire un difensore centrale dai piedi buoni. Il 22 novembre 2011, al J. S. Blatter Stadium di Apia, capitale delle Samoa (non un vero stadio: piuttosto un campo da calcio, semplicemente, non recintato, senza tribune), sia Salapu che Saelua partono titolari. Come scrive Montague, «quando l’arbitro fischia l’inizio, la storia è già stata fatta: è la prima volta che un giocatore transgender gioca una partita di Coppa del Mondo).

Le immagini della partita mostrano, a due secondi dal calcio d’inizio, due giocatori samoani americani che vanno sullo stesso pallone, entrambi con l’intenzione di toccarla a un terzo compagno, e si scontrano. La palla rimane lì. In qualche modo si separano e riescono a giocarla senza sbagliare. Il livello calcistico, anche dopo la cura Rongen, è davvero basso. Nicky Salapu dopo pochi minuti compie la prima parata decisiva, sul numero 10 di Tonga che si trova da solo davanti a lui sul dischetto del rigore: il tiro è abbastanza centrale, ma il riflesso ottimo. Sullo sfondo le immagini mostrano un resort con una piscina e delle sdraio, a dividerle dal campo non c’è un muro o una serie di posti a sedere ma solo alcune palme, magre e mosse dal vento forte dell’inizio della stagione delle piogge, che sovverte al sole una luce grigia da mareggiata. Le Samoa Americane attaccano con confusione fino al 43° minuto del primo tempo, quando Jaiyah Saelua passa un ottimo filtrante sulla trequarti per il numero 9 Ramin Ott, un venticinquenne di origine tedesca che fa partire inaspettatamente – da trenta metri – un tiro flaccido e lento che rimbalza nell’area piccola del portiere, gli sbatte in faccia e finisce in porta. Per la prima volta nella loro storia, le Samoa Americane sono in vantaggio. Tutti i titolari si lanciano in corsa verso Thomas Rongen, urlando con suoni acuti, incontrollati, e Rongen ha le mani protese in avanti quasi per proteggersi, e i muscoli e tendini della gola tesi a urlare, probabilmente, di tornare a giocare, di non perdere tempo. Loro, i giocatori, non investono Rongen ma si lanciano sul prato, si impilano disordinati uno sopra l’altro, poi si rialzano, pregano e tornano a schierarsi.

A quindici minuti dal fischio finale il secondo gol delle Samoa Americane non viene festeggiato come il primo: Shalom Luani tocca la palla con il collo per far partire il pallonetto che finirà i suoi rimbalzi nella porta del Tonga soltanto attimi prima che Kaneti Felela, il portiere avversario, lo travolga in uscita, facendolo cadere e rimanere a terra (l’unico suono che si sente prima che la palla superi la linea è un «AAAAH» di dolore) per alcuni secondi. La partita finisce 2-1 per le Samoa, il goal al novantesimo di Tonga crea qualche preoccupazione soprattutto quando, a secondi dalla fine, prima Salapu salva in uscita bassa un contropiede tongano, poi Saelua spazza dalla riga di porta un rasoterra a portiere battuto. Thomas Rongen, intervistato a fine partita, dice: «Abbiamo fatto un pezzo di storia, proprio come il 31-0 era un pezzo di storia». Jaiyah Saelua vince il titolo di Man of the Match. Johnny Salapu piange e dice a James Montague che lo riporta in Thirty-One Nil: «Finalmente. Posso lasciarmi alle spalle il passato. Posso di nuovo vivere».

La guarigione samoana (che ricorda, per i tratti di realtà che si intersecano con maledizioni e magia, quella descritta da Derek Walcott in Omeros per l’isola di St. Lucia, devastata da un passato coloniale che l’ha privata dell’anima) è arrivata. Shalom Luani e Ramin Ott diventano i capocannonieri di sempre nella storia delle Samoa Americane, con due soli gol ciascuno. La partita successiva a quella con Tonga viene pareggiata 1-1, e dopo la prima storica vittoria per le Samoa Americane arriva anche il primo pareggio. La terza e ultima gara viene persa, e per la classifica dei gol fatti la nazionale non accede al secondo turno. Ma è un successo, è una guarigione, è la fine della maledizione che aveva portato Tony Langkilde, allenatore del 31-0, a dire: «Il calcio è un gioco con tre possibilità: vincere, perdere o pareggiare. Per noi c’è una possibilità sola: perdere».

 

Nell’immagine in evidenza, Thomas Rongen e la squadra in allenamento, screenshot dal documentario Next Goal Wins del 2014. Qui sopra, la nazionale dopo la prima e unica vittoria della loro storia.