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I nuovi mostri

Claudio Lotito e Aurelio De Laurentiis, entrambi presidenti arrivati nel 2004, entrambi prima amati, poi ferocemente contestati delle loro piazze. Perché alieni, perché perdenti, perché imprenditori. Un'analisi dell'odio verso i due attraverso i topoi del genere horror.

di Roberto Procaccini

C’è chi vede Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli, come un marziano che scende da una navicella spaziale appena approdata sulla Terra. E c’è chi rappresenta Claudio Lotito, numero uno della Lazio, come un conte transilvano che si sveglia al tramonto in una cripta medievale, con il mantello nero e i canini già aguzzi. I due patron sono raffigurati dai loro detrattori, entrambi allo stesso modo e in risposta alle stesse dinamiche, come un alieno e un vampiro, cioè un essere estraneo all’habitat in cui si innesta e un parassita che si nutre della vita altrui.

Messa così, il discorso sembra eccessivo. Ma non lo è. Lotito e De Laurentiis sono due imprenditori arrivati al calcio quasi in contemporanea: il primo a luglio e ilsecondo a settembre del 2004. Hanno un percorso sportivo leggibile in parallelo, di sicuro condividono la stessa sorte: sono invisi, malgrado i meriti e per estrema severità di giudizio sui demeriti, a una parte più o meno rilevante della piazza cui fanno riferimento. Contro di loro si agita (sugli spalti, nei bar, sui social, sulle pubblicazioni piccole e grandi, ovunque si faccia opinione) una frangia del tifo che fa loro spietata opposizione. Frangia che, nell’arco di due lustri, ha affinato gli strumenti retorici da utilizzare nell’agone pubblico fino ad arrivare all’armamentario immaginifico della letteratura dell’orrore. Quindi l’obiezione è giusta: nessuno rappresenta plasticamente i due presidenti come mostri del romanzo gotico. Ma è anche vero che Lotito e De Laurentiis sono connotati, in maniera mai esplicita ma sostanziale, come l’alieno e il vampiro.

Prima un po’ di cornice. L’attuale patron della Lazio raccoglie la guida della società dalle mani di Cragnotti. Titolare di ditte di pulizia e di sorveglianza, Lotito evita alle aquile l’onta del fallimento e spalma su un piano ventennale il rientro del debito della società verso il fisco. De Laurentiis, produttore cinematografico figlio e nipote d’arte, raccoglie invece le ceneri del Napoli nelle aule del tribunale fallimentare. Riparte dalla C e sbarca in massima serie nel 2007.

Non sono mai stati amici i due, anzi. È leggendaria una cena del consiglio di Serie A del marzo 2011. Si parlava della quota dei diritti televisivi da ripartire in base ai bacini d’utenza. L’incontro mondano preparava i presidenti a un’assemblea in programma qualche giorno dopo. I diretti interessati hanno smentito l’episodio, ma pare che il dibattito si sia trasformato presto in rissa verbale, e che la rissa verbale sia tracimata in uno schiaffo di De Laurentiis a Lotito. I rapporti sembrano oggi più distesi. A fine agosto, quando la scalata del presidente laziale alla politica del calcio ha toccato la vetta con l’elezione del suo uomo Carlo Tavecchio al soglio della Figc, le telecamere hanno immortalato il patron napoletano mostrargli la propria scheda prima di infilarla nell’urna. Un atto di fedeltà a termine di una campagna impopolare, dove la battuta di Tavecchio sugli extracomunitari “mangia banane” aveva ridato slancio alla candidatura di minoranza di Albertini e ai frondisti capitanati da Juve e Roma.

Tornando alla gestione dei due club, i presidenti vantano un palmarès pressapoco uguale: due coppe Italia a testa, una Supercoppa per la Lazio e una ancora da disputarsi per il Napoli. Intanto hanno riconsegnato le squadre ai piani medio-alti della classifica e qualificato, con maggiore o minore continuità, i club alle competizioni Uefa. Non è però bastato per essere benaccetti dalle proprie piazze, entrambe provenienti da stagioni di gloria se non recenti neanche remote. I biancocelesti hanno vinto in Italia e in Europa allo scadere degli anni Novanta, lo stesso avevano fatto gli azzurri dieci anni prima nell’epopea maradoniana. Il valore da conferire ai risultati sportivi è opinabile per definizione. Basta un buon piazzamento in classifica per ritenersi appagati? Ognuno può dire la sua, e infatti i tifosi, all’ombra del Vesuvio come a Roma, sull’argomento si dividono.

Lotito e De Laurentiis calano in un contesto ancora in espansione portando un paradigma diverso, quello dell’oculatezza economica. Interpretano l’idea che il calcio sia un’attività imprenditoriale capace di auto-finanziarsi e generare ricchezza.

Le piazze invece si compattano quando c’è da parlare di soldi. E qui è necessario un inciso. Ciclicamente (quando il ranking Uefa ci penalizza, quando le nostre squadre rimediano magre figure in campo europeo, quando la Nazionale inanella due Mondiali consecutivi al limite del ridicolo) si parla della crisi del calcio italiano. E con lo stesso ritmo si rispolvera “il modello tedesco”. Che poi sarebbe: conti in ordine, mai il passo più lungo della gamba, stadi di proprietà, e ancora conti in ordine.

Nell’estate del 2004, invece, la Serie A pasceva ancora nella sua effimera ricchezza. Un anno prima la finale di Champions league aveva contrapposto la Juve al Milan. L’Inter valutava a cuor leggero il portiere Fabián Carini 10 milioni di euro. Alla guida dell’Italia arrivava il pluridecorato Marcello Lippi. Insomma, nessuno pensava che si dovesse guardare alla Bundesliga (né in generale all’estero) per imparare a gestire un club di calcio. Lotito e De Laurentiis calano quindi in un contesto ancora in espansione portando un paradigma diverso, quello dell’oculatezza economica. Interpretano l’idea che il calcio sia un’attività imprenditoriale capace di auto-finanziarsi e generare ricchezza non come un fatto personale, ma come un metodo da portare nel movimento italiano. «’Sto mondo va cambiato», ha sempre ripetuto il patron laziale. «Voglio il calcio italiano sul modello dell’Nba» proclamava il collega partenopeo quando ancora il suo obiettivo sportivo era contendere al Frosinone la promozione in B.

Almeno su questo, possono dire di aver avuto ragione. Oggi che tante cose sono cambiate, si sono messi in scia la famiglia Berlusconi, che sta provando a razionalizzare i costi di Casa Milan, la nuova dirigenza indonesiana dell’Inter e quella juventina a guida Andrea Agnelli.

Tanta lungimiranza, però, al tifo più passionale non basta (e il tifo, per definizione, è ombelicale anche in persone altrimenti molto accorte). È un modello di gestione che subordina la sete di vittoria alla probità ragioneristica. E che impone scelte poco pop: come cedere Lavezzi per incassare plusvalenze monstre o finire ai ferri corti coi Pandev e coi Zarate a proposito di ingaggi.

Qui veniamo alle contestazioni. Quella a Lotito ha conosciuto due fasi. Appena insediatosi alla presidenza della Lazio, vuoi per l’aura di salvatore della patria, vuoi perché tra le prime mosse riporta nella Roma biancoceleste il figliol prodigo Paolo Di Canio, è accolto bene. Nell’aprile 2005, durante un giro di campo pre-partita, i gruppi della Curva Nord lo acclamano “Duce, Duce” (cosa che per un settore di estrema destra rappresenta una forte apertura di credito). Ma la luna di miele finisce presto. A voltare le spalle al patron sono per prime le sigle del tifo organizzato. La loro non è una protesta disinteressata. Il presidente ha tagliato i ponti formali e informali con la curva: niente biglietti omaggio, basta sostegni alle coreografie, niente più privilegi piccoli e grandi ai professionisti del tifo. Rendono bene l’idea del clima che si respirava nella Nord alcune intercettazioni tra capi ultrà del 2005-2006. Siamo nel periodo in cui una “cordata Chinaglia” lancia la scalata al pacchetto societario della Lazio. «Calcola che se rimane Lotito, qua dobbiamo rivede’ tutto perché probabilmente chiudemo tutto. Noi dovemo comunque fa’ la guera a ‘sto bastardo». A rischio chiusura sono gli store Original Fans, quelli dove sono in vendita i gadget del tifo organizzato.

La lotta della Nord a Lotito va avanti «e diventa un mantra, lascia il solco nel pubblico biancoceleste come una goccia che scava la roccia – commenta un conoscitore della piazza laziale – entra in sintonia con alcuni tribuni del giornalismo sportivo locale che hanno interesse ad alimentare il malcontento». Il punto di non ritorno si tocca nel 2013. La conquista della Coppa Italia sulla pelle degli arcirivali della Roma regala ai biancocelesti un’estate di euforia. Ma al gol vittoria di Lulic non segue un mercato degno delle aspettative. Gli aquilotti si impantanano in un campionato mediocre proprio quando i cugini, rigenerati dalla cura Garcia, tornano a volare. La cessione di Hernanes, dopo che l’estenuante trattativa per Yilmaz è naufragata, è la goccia che fa traboccare il vaso. Qui parte la seconda fase della protesta: agli ultras si unisce il ceto riflessivo del tifo, quello dei settori laterali. L’isolamento di Lotito è plateale nella sua solitudine in tribuna Autorità. A febbraio, in occasione della gara casalinga contro il Sassuolo, l’Olimpico, dopo mesi di scarsa affluenza, si riempie per dimostrare al presidente che la disaffezione non è verso la squadra ma verso lui. A maggio le celebrazioni per il quarantennale del primo scudetto della Lazio si trasformano in una manifestazione contro il patron.

Nel luglio del 2007 la presentazione alla stampa di Ezequiel Lavezzi e Marek Hamsik, due destinati a scrivere la storia recente del club è accompagnata dalle proteste di un gruppo di tifosi, che ritiene gli acquisti inadeguati.

Non è più semplice la vita per Aurelio De Laurentiis. I primi tre anni della sua presidenza, trascorsi nelle serie minori, scivolano piuttosto tranquilli. I grattacapo arrivano dalle curve: nel dicembre del 2006 un Napoli-Frosinone di serie B è interrotto dal lancio di petardi sulla pista d’atletica del San Paolo. Un processo chiuso nel 2009 con le condanne per cinque ultras riconosce nell’incidente un’intimidazione a fini estorsivi. I tifosi volevano piegare la dirigenza alle loro richieste, altrimenti avrebbero causato la squalifica dello stadio.

La convivenza tra il produttore cinematografico e la piazza napoletana si complica con il crescere delle aspettative, cioè col ritorno in A. Nel luglio del 2007 la presentazione alla stampa di Ezequiel Lavezzi e Marek Hamsik, due destinati a scrivere la storia recente del club (il secondo a indossarne la fascia di capitano) è accompagnata dalle proteste di un gruppo di tifosi, che ritiene gli acquisti inadeguati. Anche nel caso del presidente del Napoli, le cose si aggravano quando al broncio dei gruppi organizzati si salda il malcontento del ceto medio. E anche nel suo caso c’è una Coppa Italia a fare da spartiacque. È quella che gli azzurri conquistano il 3 maggio 2014, nell’insanguinata finale dell’Olimpico. Il pubblico aspetta che la società porti avanti il progetto Benitez con un mercato all’altezza di una squadra che voglia contendere alla Juve il tricolore. Gli acquisti, però, non arrivano, e l’eliminazione dai preliminari di Champions sancisce una stagione nata col piede sinistro. Chiude il cerchio uno striscione per De Laurentiis comparso nel settore Ospiti del Marassi in occasione di Genoa-Napoli, prima di campionato: «L’abbiamo capito, sei peggio di Lotito».

In conclusione, che cos’è che vogliono i tifosi col mal di pancia dai loro dirigenti? Di più: più coraggio, più spesa, più trofei. E qui torniamo al discorso della gestione economica. Alle piazze interessa poco lo scudetto del bilancio, cioè il titolo onorifico di essere tra i pochi con i conti a posto. Vogliono – costi quel che costi, è il caso di dire – il tricolore di tessuto, quello che si cuce sulla maglia. Poi, certo, Lotito e De Laurentiis non sono esenti da critiche. Di errori ne hanno fatti. Spesso sovrainterpretano il principio di parsimonia. Il primo ha il piglio padronale e qualche conto in sospeso con la giustizia. Il secondo è collerico e sprezzante, oltre che meno performante del collega in materia di patrimonializzazioni (il Napoli non è proprietario neanche del suo campo allenamenti). A entrambi viene imputato di essere degli one man show, in particolar modo di non aver sviluppato in maniera adeguata l’organigramma societario, tenendo i club ai livelli di grandi ditte familiari.

Che sia la capacità di spesa il tasto dolente è testimoniato dalle migliaia di articoli, interventi di opinionisti e discussioni di cui c’è traccia sul web. Ancor di più lo certificano i due tormentoni che riguardano i patron: il nomignolo più diffuso di Lotito è la storpiatura del suo cognome in “Lotirchio”, mentre l’invettiva che più spesso i napoletani rivolgono a De Laurentiis, al punto che anche lui ne ha fatto un’autoparodia, è: «Preside’, cacc’ e sord’» (tira fuori i capitali, ndr).

Sia chiaro: il dibattito sui due presidenti fin qui tratteggiato non è monolitico. Innanzitutto si manifesta su un livello verticale di critica al potere, cioè come dissenso verso la dirigenza. E poi vive a un livello orizzontale, come diatriba tra tifosi stessi. Perché, è bene ricordarlo, alla frangia anti-presidenziale del pubblico se ne oppone, in maniera elastica e in base ai momenti, una lealista. Ed è proprio in questo continuo scambio che si è creata quella narrazione che, infine, ha portato Lotito e De Laurentiis a essere rappresentati come alieni e vampiri.

Usando le lenti dell’analisi letteraria per interpretare gli argomenti della critica, la prima cosa che balza all’occhio è che per essa i due presidenti interpretano l’archetipo dell’Ombra.

Usando le lenti dell’analisi letteraria per interpretare gli argomenti della critica, la prima cosa che balza all’occhio è che per essa i due presidenti interpretano l’archetipo dell’Ombra. Per capire di che si parla, si prenda la definizione che ne dà Christopher Vogler (story analist per l’industria hollywoodiana) nel suo Il viaggio dell’Eroe, manuale di scrittura di soggetti per il cinema. L’Ombra, allora, è quella pulsione interna al protagonista principale che non gli permette di affrontare la sfida che gli si para davanti. «Ha un potere grande, ma subdolo», scrive Vogler, che «ostacola gli sforzi e turba gli equilibri». L’Ombra, insomma, è la reticenza che frena l’eroe dal tuffarsi nell’avventura. Nello storytelling ha un valore positivo: è la prima sfida da superare. Quando Bilbo Baggins vince la prudenza in lui connaturata e si decide a seguire Gandalf, può finalmente iniziareLo Hobbit e la saga del Signore degli Anelli. Inutile dire che per Lotito e De Laurentiis questa sfumatura positiva non valga. Nel senso che per i loro oppositori, il superamento dell’Ombra (cioè l’andare oltre i risultati buoni per conseguire quelli ottimi) equivale al superamento stesso della loro stagione di presidenza. “Libera la Lazio” è lo slogan dei tifosi celesti contro il loro patron.

D’altronde è dall’impossibilità della convivenza che nasce la mostrificazione. Se per alcuni la presenza stessa dei patron è un’offesa all’ordine delle cose, viene da sé che la critica al loro operato è delegittimazione ontologica. In questo senso è preziosa la lettura di Danse Macabre, saggio sull’arte horror scritto da Stephen King nel 1981, quando era un romanziere piuttosto giovane, ma già autore di bestseller quali CarrieShiningLe Notti di Salem. Nella lunga trattazione sui meccanismi della paura, King pone una premessa: «Tutti i racconti dell’orrore si possono dividere in due gruppi: quelli in cui l’orrore deriva da una scelta libera e consapevole» e quelli dove invece l’orrore «arriva dall’esterno». C’è un mondo ordinato, sbarca il marziano e lo mette a soqquadro. È in questo filone che rientrano i dossier Lotito e De Laurentiis. Non è un caso che contro entrambi sia usato l’argomento dell’origine “aliena”. Sul presidente della Lazio gira l’indiscrezione che sia stato in gioventù tifoso romanista. Non gli è bastato raccontare più volte dell’iniziazione, a opera del fidanzato di una tata, alla fede laziale all’età di 6 anni. Ancora lo scorso luglio, in un’intervista al Guerin Sportivo, si difendeva: «Sono laziale dal 1961, lo possono testimoniare i miei compagni di scuola». Stesso peso hanno le accuse di aver “delazializzato” la società, di averla cioè svuotata di uomini capaci di rappresentarla nello spirito.

È un meccanismo che rientra nel tribalismo del calcio, nella sua logica alimentata di identità contrapposte. I napoletani non hanno fedi pregresse da rinfacciare a De Laurentiis. Piuttosto gli rimproverano l’agnosticismo: si è tifosi dalla nascita, non dai cinquantacinque anni. Nel caso del patron azzurro, però, più di questo pesano i natali capitolini, non bilanciati a sufficienza, secondo alcuni, dalle ascendenze vesuviane della famiglia. “Il romano”, lo definiscono i partenopei, sottintendendone un’accezione negativa. “Napoli siamo noi” e “il Napoli ai napoletani” sono due slogan, invece, in uso delle curve per intendere che il presidente ha problemi di natura agnatizia.

Un argomento di diffidenza verso entrambi è il loro essere, in generale, alieni al calcio: non hanno avuto relazioni con questo fino a quando non sono diventati presidenti di club di A. Il problema implicito in questa constatazione non è la mancanza di competenze o di cursus honorum, ma di intenti: i due presidenti non sono arrivati nella società del pallone per passione, ma per tornaconto economico. Non per amore, ma per brama di denaro. Qui torniamo a Danse Macabre. King individua i tre “Tarocchi” dell’immaginario dell’orrore, cioè le tre figure che, declinate in varie salse, sono il perno centrale di tutte le storie di paura. Una di questa è il vampiro, non a caso una delle incarnazioni dell’orrore alieno (Dracula arriva a Londra seguendo Jonathan Harker come Lotito arriva alla Lazio portato Storace, verrebbe da dire).

La prima metafora del vampiro è la più facile da leggere: che cos’è, in fondo, se non un grosso parassita? Proprio quello che rappresentano Lotito e De Laurentiis agli occhi degli oppositori. Per gli scontenti, al problema che i presidenti non si indebitino per attrezzare la squadra si aggiunge l’aggravante che questi col calcio addirittura guadagnino. Il sangue della vergine, allora sono i soldi che i supporter investono nell’acquisto di biglietti, pacchetti tv e gadget. I canini del vampiro sono i flussi di cassa che finiscono a favore della dirigenza.

La prima metafora del vampiro è la più facile da leggere: che cos’è, in fondo, se non un grosso parassita? Proprio quello che rappresentano Lotito e De Laurentiis agli occhi degli oppositori.

La notizia che il consiglio d’Amministrazione del Napoli nel 2013 si sia assegnato cinque milioni di euro di compensi ha generato enormi polemiche nell’ambiente. Nel calcio una pratica usuale delle società private diventa urticante se non si è riusciti a trattenere Cavani. La faccenda ha ancora un grado in più di complicazione. Scrive King: «La leggenda del vampiro palpita vigorosamente di energia sessuale». In che senso? Dracula che si introduce di soppiatto nella stanza da letto della bella da dissanguare è «l’immagine primaria dello stupro». Venendo al pallone, è un simile sentimento di violazione (sia chiaro: intima, non biologica) che rende insopportabile per i tifosi il fatto che un dirigente di calcio guadagni con la sua attività. È la rottura di un patto sociale: come il sostenitore fa per la squadra del cuore sacrifici (in ordine di tempo, energie personali e risorse economiche), lo stesso dovrebbe fare il presidente. Quando non avviene, il tifoso si sente tradito ancor più che danneggiato.

I cortocircuiti sono numerosi. Il primo è valoriale. «Negli Stati Uniti uno come De Laurentiis sarebbe definito money maker, e sarebbe un complimento».Massimiliano Gallo è direttore e fondatore de Il Napolista, testata online che dal 2010 segue, con particolare attenzione alle compromissioni politiche e sociali del calcio, le vicende del club partenopeo. Non ha mai avuto particolare simpatia per il patron azzurro, ma da circa un anno, da quando cioè la voce dei suoi oppositori è diventata la più forte, ne è diventato un difensore. «Il presidente non sa nascondere la propria arroganza, e per questo non riesce a vendere quanto di buono fa. A Napoli la sua è una delle cinque realtà imprenditoriali più importanti, e l’ha creata da zero. Ma – continua – il tifo è goloso di vittorie e condizionato dalla logica del “meritiamo di più”. Non concepisce che un imprenditore possa fare calcio tenendo d’occhio i conti, ma senza inseguire la vittoria».

E poi ci sono le conseguenze sui rapporti tra pubblico e squadra. «Molti dei contestatori di Lotito hanno deciso di non frequentare più l’Olimpico». Stefano Ciavatta è un giornalista romano che per professione non si occupa di sport. Ma che, da sostenitore della società biancoceleste, ha scritto #Vola – Il manuale di chi tifa Lazio (Fandango Libri). «Il rammarico è questo – conclude –: le energie si disperdono in una contestazione senza fine, mentre il rapporto tra la squadra e il suo popolo si scolla. Il paradosso? Molti sono andati in agitazione per la voce della cessione di Keita, ma non l’hanno mai visto giocare dal vivo».