Attualità

Guardare il Barcellona è un’esperienza diversa

Il ciclo tra Milan e Barcellona visto da chi (quasi sempre) perde. Perché le partite con il Barça, dal punto di vista emotivo e del gioco, sono diverse dalle altre.

di Davide Coppo

Guardare la tua squadra che gioca contro il Barcellona è diverso dal vedere la tua squadra che gioca contro un’altra qualsiasi squadra. Se la tua squadra è il Milan, e negli ultimi due anni ha dovuto affrontare sette volte il Barcellona, questo lo sai benissimo. Se la tua squadra non è il Milan forse non lo sai perché non l’hai mai provato, o l’hai provato soltanto una volta e l’hai dimenticato. Proverò a spiegartelo qui, cosa significa giocare contro il Barcellona, e perché è un’esperienza diversa dal calcio normale. Non è detto che sia un’esperienza negativa, anzi è un’esperienza da provare, come sono da provare le cose adrenaliniche e uniche della vita, dicono.

Volevo inizialmente scrivere del piacere e del privilegio di poter guardare (e godere e disperare per) la Champions League ogni anno, o quasi, cercare un’analisi tassonomica della bellezza della Champions League a partire da ogni dettaglio – l’inno, lo stadio pieno, le transenne dei diversi anelli degli stadi coperte dal simbolo argento-nero-blu della competizione, il maxischermo che fa vedere tutti i goal delle altre partite all’intervallo, e così via, e così via –, ma mi sono accorto poi della particolare Champions League che da due anni a questa parte mi trovo a vedere insieme al Milan. Una Champions League che è, praticamente, un Milan-Barcellona con qualche altra partita di contorno.

La prima partita del ciclo di eterno scontro tra Milan e Barcellona si gioca al Camp Nou ed è una precoce sintesi di tutti i successivi scontri tra le due squadre: gioca solo il Barça o quasi.

Un po’ di storia: il principio dell’eterno scontro tra Milan e Barcellona (che, mi rendo conto, può essere definito «eterno scontro» soltanto da un tifoso del Milan, mentre agli occhi di un tifoso del Barcellona di oggi il Milan deve essere né più né meno di una fastidiosa zanzara in una notte afosa di luglio) inizia il tredici settembre 2011. Il Milan è campione d’Italia e il Barcellona è campione d’Europa, ed è già «il Barcellona» per antonomasia, quello del tiqui-taca e del calcio che alcuni trovano noioso ma che sul campo ti fa pensare soltanto a tre parole: velluto, perfetto, vittoria. Il libro di Sandro Modeo che consacra l’idea di calcio totale del ventunesimo secolo di Guardiola, Il Barça, esce due settimane dopo la partita nelle librerie italiane, grazie ai tipi di Isbn Edizioni. La prima partita del ciclo di eterno scontro tra Milan e Barcellona si gioca al Camp Nou ed è una precoce sintesi di tutti i successivi scontri tra le due squadre: gioca solo il Barça o quasi, il Milan attacca quando può. Può nei primi minuti, quando Cassano (Cassano è stato al Milan, ti ricordi?) serve una palla a Pato nel cerchio di centrocampo, e Pato sembra ingabbiato e spalle alla porta e in effetti lo è, poi all’improvviso – se riguardi il replay venti volte non capisci comunque come e soprattutto perché – si gira e butta il pallone avanti, più avanti ancora rispetto alla difesa del Barcellona che infatti lo guarda e non lo segue, e lui, Pato, lo guarda e si trova in un attimo davanti a Valdes e segna il gol dell’uno a zero improvviso e bellissimo. Pato esulta, non fa più con le mani il gesto del cuore alla fidanzata Barbara, esulta rabbioso e con il senno del poi si capisce già che il Pato arrabbiato non è il Pato fortissimo e spensierato dei primi anni. Ma al momento ci interessa poco. Poi il Barcellona inizia a giocare, anzi gioca circa ottanta minuti di fila, Messi la mette in mezzo per Pedro ed è uno a uno. Nel secondo tempo c’è una punizione al limite dell’area, Villa tira e segna, facile. Thiago Silva negli ultimi minuti segna di testa su calcio d’angolo di Seedorf, il Milan pareggia e non se lo merita.

Al ritorno, a San Siro, il Milan perde tre a due ed è una partita tra le più belle degli ultimi due anni. Di bello c’è il goal del pareggio (1-1) del Milan, un no-look di Clarence Seedorf per Ibrahimovic che di sinistro la mette alla sinistra di Valdes, e in quel goal c’è anche tutta la storia consumata e logorata dalla chiacchiera e dai giornali sul passato dello stesso Ibrahimovic a Barcellona, e allora è un goal che ti fa esultare ancora di più, come se quella vendetta la sentissi anche tu. Di bello c’è il cartellino giallo a Messi che deve tirare un rigore ma si scopre umano, non sa cosa fare una volta iniziata la rincorsa, e allora si ferma e costringe l’arbitro a fischiare il fallo (segnerà poi al secondo tentativo). C’è il goal del pareggio (2-2) di Boateng, che controlla di tacco un pallone che così non lo controllerà mai più nessuno, non in una partita così sentita per molti anni ancora, e poi lo calcia sul primo palo battendo Valdes. Ci sarebbe poi il goal di Xavi del 2-3, ma quello non è così bello in fondo.

Nella stessa competizione, la stessa stagione, il Milan deve giocare ancora con il Barcellona nei quarti di finale. L’andata si gioca il ventotto marzo 2012, e finisce zero a zero. Ci sono due cose che, a rivederle oggi, fanno impressione. Sono due salvataggi fondamentali di Luca Antonini (ci sarebbe anche un errore tragico di Robinho, ma quello non fa impressione, fa routine). Il primo è un recupero su Sanchez, al 34′ del primo tempo, un recupero in scivolata da dietro quando il cileno sta per calciare davanti ad Abbiati, ed è un recupero per cui ricordo l’esaltazione da spettatore di San Siro riascoltando il boato attraverso Youtube. Il secondo è ancora più importante, perché arriva al minuto 87, quando Abbiati devia troppo corto un tiro di Messi e Antonini, disperato, butta il corpo tra la ribattuta strozzata di Tello e la porta del Milan, a pochi centimetri dall’ultima, e riesce ad allontanare il pallone.

Il ritorno si gioca il ventotto marzo e il Barcellona domina e vince tre a uno, senza molto altro da dire. Alla fine della competizione la squadra di Guardiola viene eliminata dal Chelsea di Di Matteo, grazie a un catenaccio perfetto, un sacco di fortuna, un goal in pallonetto di Ramires e un contropiede perfetto come il catenaccio di Fernando Torres. Io, e come me molti tifosi milanisti, già oppressi da quella rivalità involontaria che l’urna della Uefa ci aveva regalato, esultavo moltissimo.

Nella Champions League 2012/13 la rivalità tra Milan e Barcellona acquista un carattere epico, se non altro per l’enorme componente che il caso ha da sempre nei racconti epici. Il caso è quello dell’urna di Nyon, diciottomila abitanti a mollo sul lago Lemano o lago di Ginevra, centro dell’Europa per un giorno a ogni sorteggio Uefa, che estrae ancora rossoneri contro blaugrana, Milan contro Barcellona, e fissa l’appuntamento per il venti febbraio 2013.

Il venti febbraio 2013 la rivalità tra Milan e Barcellona, oltre ad acquistare un carattere epico, si fa molto più agonistica, rabbiosa, personale. Perché succede che agli ottavi di finale della Champions League 2012/13 il Milan, non si sa perché – non lo ricordo nemmeno io, per la terza volta in un anno e mezzo allo stadio a tifare contro i catalani – vince due a zero. Il primo goal, irregolare per uno stop di mani di Bakaye Traoré, è di Boateng al minuto 55. Il secondo, che fa letteralmente esplodere le corde vocali dei tifosi, le quali insieme fanno esplodere lo stadio intero, è il frutto di un’azione corale costruita da Niang, El Shaarawy e conclusa da Muntari Ali Sulley (Muntari è il nome, Sulley il cognome). Per la partita di ritorno il Barcellona come squadra e Barcellona come città si armano di orgoglio e marketing, e lanciano una campagna per la «remuntada» come l’avevano lanciata nel 2010 dopo la semifinale di andata contro l’Inter di Mourinho. Da parte mia presagivo già la sconfitta, senza lasciarmi non trasportare, ma nemmeno sollevare dalle ali dell’entusiasmo. Il Milan è troppo debole, e il Barcellona vince quattro a zero, e M’baye Niang colpisce un palo che non si dimenticherà nessuno, e di certo nemmeno lui.

Si arriva al nuovo sorteggio, un altro, per decidere i componimenti dei gironi della Champions League 2013/14. Milan e Barcellona, ancora. Diventa quasi un sollievo. Almeno sai cosa ti aspetterà, sei preparato. Già, cosa ti aspetterà? Torniamo all’inizio. Guardare il Barcellona che gioca contro la tua squadra è diverso dal vedere la tua squadra che gioca contro un’altra qualsiasi squadra. Se hai mai visto una corrida, o una tauromaquia come la chiamano in Spagna, sai esattamente cosa significa «fare la parte del toro». Non intendo la parte di chi attacca e incorna e scalcia e carica invano, ma il ruolo di chi prova a sopravvivere, e non a vivere, a ribattere e controbattere cercando di allungare una vita che è diventata agonia, ovvero lotta contro la fine (per usare un altro paragone, pertinente sia con il gioco del Barcellona che con la corrida, potrei dire: sei la galleria grazie a cui un’opera d’arte – la squadra blaugrana – può venire ammirata dal pubblico). La partita Milan-Barcellona del ventidue ottobre 2013 finisce 1-1 e non è diversa dalle altre Milan-Barcellona o Barcellona-Milan precedenti, non troppo. Un balletto ironico intorno alla tua difesa, intorno ai tuoi trenta euro di biglietto, al tuo orgoglio di tifoso, alla tua speranza di poter vincere.

Un balletto ironico intorno alla tua difesa, intorno ai tuoi trenta euro di biglietto, al tuo orgoglio di tifoso, alla tua speranza di poter vincere.

Inizia a centrocampo e si ferma prima dell’attacco, se con attacco intendiamo l’area di rigore, si ferma e lì rimane, per tutto il tempo che gli pare. C’è da dire che il Barça di Gerardo Martino non è il Barça del tiqui-taca totale di Guardiola, e allora la sensazione questa volta è soltanto leggermente meno opprimente, ma comunque ben presente. Il Barcellona provoca – e sta tutta qui la differenza con le altre squadre – una distribuzione dell’adrenalina del tifoso completamente scompensata rispetto a qualsiasi altra partita. In un’altra partita sei pronto – lo sei, perché sei un tifoso di calcio e allora lo sai – a essere colpito da un momento all’altro, con un’azione da catechesi del gioco, che dura trenta secondi al massimo, una piccola serie di passaggi o di rimpalli (tre, quattro, cinque è già tanto) e un tiro decisivo: goal subìto, pazienza, provi a farne uno tu. Con il Barcellona, una squadra che non ha frequentato il catechismo che hai frequentato tu, la dinamica dell’azione offensiva si estende potenzialmente all’infinito, sempre sul punto di venire (sì, anche in quel senso) ma che non arriva mai. Le palpitazioni del tifoso, abituate al gioco del calcio che è fatto di pochi alti e moltissimi medi, sono scompensate: devono rimanere per sei, sette, otto minuti a un livello alto, altissimo, guardi la tua squadra vittima di un torello (appunto, la tauromaquia) che non si conclude mai, vorresti fischiare (se sai fischiare) o cantare (se puoi cantare) o accendere una sigaretta, dire una battuta a quello in piedi alla tua destra, controllare il cronometro o il risultato di un’altra partita che si gioca in contemporanea, e non ci riesci perché sei fermo a morderti il labbro inferiore con l’arcata dei denti superiore, in un rigor che è un’attesa mortis che non arriva mai. Se finisce bene, di solito, il Barcellona prende un palo, o conclude fuori di pochissimo. Se finisce male, segna, e ti chiedi perché ci abbia messo tanto. Allora puoi accenderti una sigaretta, che è una sigaretta di liberazione, a metà tra quella di un condannato a morte e quella post coitale.

La partita finisce, e vai al bar con gli amici. Sai di non avere speranza per un’eventuale gara di ritorno, di solito, per due motivi: se hai pareggiato o vinto significa che hai giocato in casa, e allora devi andare ancora a giocare il ritorno a casa loro, al Camp Nou, e sai che al Camp Nou si vince una volta su mille; se hai perso è perché hai già giocato al Camp Nou, e hai perso «abbastanza» a zero per sapere che non potrai ribaltare il risultato in casa. Però in un certo senso sei tranquillo o anestetizzato. Almeno, io sono tranquillo e anestetizzato. Con il Barcellona l’unica parte che puoi fare, in questo momento della storia, se non ti chiami Bayern Monaco (ma soprattutto se ti chiami Milan), è questa. Almeno sai che per una sera la squadra per cui tifi, che ha vinto uno scudetto nelle ultime nove stagioni e non vince una Champions League da sei, sarà al centro dell’attenzione del mondo del calcio per una notte. Come se ti battessero le mani sulle spalle e ti dicessero «dai, ci hai provato».

 

Nell’immagine, la rete di passaggi del Barcellona in Barcellona-Milan 4-0. Via Fourfourtwo/Opta