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FC Barcelona

Més che un club, non solo sul campo: la strategia del Barca come veicolo della Catalogna nel mondo

di Cesare Alemanni

Si fa presto a dire Cantera. Negli ultimi cinque anni, da quando il Barcelona è diventato il club leader del calcio mondiale, la Cantera – il settore giovanile del Barça che ha prodotto Xavi, Iniesta, Fabregas, Piqué, Puyol e molti altri – è stata individuata come la principale spiegazione dei successi dell’undici di Pep Guardiola. In realtà, per ricercare le ragioni ultime di questa lunga catena di vittorie, si deve procedere molto più a ritroso nella filiera delle cause e fare luce su un modello organizzativo che riflette una precisa cultura della vita e dello sport, quella catalana. La quale si regge su una serie di principi secolari: autonomia, democrazia, trasparenza, risultati. Come sintetizzato perfettamente dal famoso slogan Més que un club (Più che un club), il Barcelona è un veicolo della Catalogna nel mondo non solo in senso sportivo, proprio come lo aveva immaginato fin dalle sue origini (1899) il fondatore; lo svizzero Hans Kamper, innamorato della regione al punto da farsi “catalanamente” ribattezzare Joan Gamper.

Tutto parte dai socios, le oltre 160mila persone che compongono l’azionariato popolare della polisportiva Barça. All’85 per cento si tratta di catalani, a conferma di quel che si diceva poche righe sopra Dietro il versamento di una rata annuale, i socios godono, tra gli altri, del diritto di eleggere il presidente. Esiste un precedente utile a comprendere fino a che punto questo modello sia parte integrante del DNA della società. Risale al 1997, all’epoca in cui l’allora presidente Joseph Nuñez (in carica dal 1978) chiese ad alcuni analisti della Rotschild di individuare le potenzialità inespresse del suo “giocattolo” e, sulla scorta dei dati che gli fornirono, avviò il progetto “Barça 2000” che prevedeva tralaltro la trasformazione dell’area adiacente al Camp Nou – lo stadio da 120mila posti del Barça – in un parco di divertimenti a tema, un piano che avrebbe richiesto l’ingresso di nuovi capitali che in proporzione avrebbero reso briciole le quote in mano ai piccoli azionisti così come la loro influenza sulle scelte societarie. Il tentativo di Nuñez fu interpretato come una minaccia allo statuto  del Barcelona, il primo passo verso la sua trasformazione in una società controllata da un azionariato di maggioranza. Da Més que un club a un club come tanti.

Si formò quindi un gruppo di socios dissidenti riuniti intorno alla figura dell’avvocato Joan Laporta (guarda caso avvocato anche di Johan Cruiyff – leggenda anni ‘70 del calcio olandese e dello stesso Barça – da poco in rotta, ma per altre ragioni, con il presidente Nuñez…) . Si facevano chiamare L’Elefant Blau e riaffermavano la centralità dell’azionariato popolare, chiedevano un aumento di trasparenza nella gestione del club e volevano porre un tetto di 4 anni alla durata di ogni mandato presidenziale. Dopo mesi di lotte intestine i dissidenti la spuntarono e nel 2000, dopo 22 anni, Nuñez lasciò la presidenza a Joan Gaspart che sorprendentemente sconfisse con una maggioranza risicata Lluis Bassat il candidato sostenuto dal gruppo de L’Elefant Blau.  La presidenza di Gaspart fu breve e travagliata, il Barça non vinse nulla e alla fine della stagione 2002/2003 – l’ultima con Gaspart come presidente – occupava il 13esimo posto nella classifica per utili delle squadre europee e soltanto il sesto nella Liga. La sola cosa che poteva “vantare” era un buco di 180 milioni.

A quel punto, uno dei più critici nella storia del Barça, Joan Laporta ottenne la presidenza con la maggioranza dei voti dei soci e avviò un vasto programma di rilancio del club a tutti i livelli, dallo sport al marketing. Nel suo motto Primer, el Barça (il Barça prima di tutto) risuonava forte lo spirito Més que un club ma Laporta non era tanto sprovveduto da affidarsi al solo romanticismo. Fu anzi immediatamente in grado di prendere una decisione molto pragmatica e inizialmente piuttosto impopolare: portò nel board alcuni top manager, scegliendoli tra i massimi specialisti disponibili in ciò di cui si sarebbero dovuti occupare, che si trattasse di logistica, marketing o diritti televisivi. Tutti tifosi del Barça e quindi doppiamente motivati seppur privi di precedenti esperienze strettamente legate al calcio. Ognuna di queste nuove figure manageriali si sarebbe occupata di sviluppare un’area specifica e avrebbe fatto rapporto sulle proprie attività direttamente a Laporta il quale, a sua volta, avrebbe condiviso il loro operato con il  resto del board e con i soci; formalmente in ossequio ai principi di democrazia e trasparenza così cari alla tradizione blaugrana. Aiutato dai suoi manager e da analisti esterni, Laporta ha messo a punto uno schema di sviluppo circolare senza soluzione di continuità e in grado di autoalimentarsi seguendo questo percorso: 1) Acquistare e lanciare i migliori talenti, 2) Vincere trofei, 3) Aumentare i tifosi a livello globale, 4) Accreditarsi presso media e investitori come i leader mondiali del prodotto calcistico, 5) Discutere migliori contratti televisivi e pubblicitari in tutto il mondo e quindi, 6) Aumentare i ricavi per poter, 7) Controllare i costi e risanare le finanze e avere altri soldi da investire per, 1) Acquistare e lanciare i migliori talenti etc.. Un moto perpetuo di valori tecnici e sportivi, soldi e assetti imprenditoriali in cui ogni area, che sia quella tecnica facente capo all’allenatore o quella marketing diretta da un manager, agisce come una cellula indipendente seppure in sinergia con tutte le altre.

Sono trascorsi otto anni dall’elezione di Laporta, giunto ormai al suo secondo mandato. In questo arco di tempo il Barcelona ha vinto 3 delle ultime 6 Champions League e un numero impressionante di altri trofei e anche se i momenti di scontro ai vertici della società non sono mancati, i conti del Barça non sono ancora del tutto in regola, qualcuno dice che la  tanto decantata democrazia blaugrana sia ormai più fumo che arrosto e la decisione di vendere dalla prossima stagione lo spazio sulle maglie a uno sponsor del Qatar (dopo che per anni il Barcelona ha rifiutato qualunque sponsorizzazione, eccetto quelle gratuite di UNESCO e UNICEF che non avranno portato molto sul piano economico ma tantissimo su quello dell’ immagine) non è piaciuta a molti – ogni giorno che passa è sempre più difficile negare che il Barça  sia davvero Més que un club.