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Cosa rimane di questo Mondiale

Le storie più forti, Leo Messi, l'organizzazione tedesca, i portieri, le squadre africane, le novità tattiche, l'uomo copertina: tutto quello che è successo e ricorderemo di Brasile 2014, raccolto da 6 voci.

di Aa.Vv.

Il Mondiale brasiliano è finito. È stato un Mondiale bellissimo, un Mondiale con belle sorprese e grandi delusioni e moltissimi gol realizzati. Ha vinto la Germania, si dice meritatamente, ma in una finale spettacolare, tesa e rischiosa. Abbiamo scoperto giocatori inaspettati, assistito all’ascesa di squadre dal bel gioco sfrontato, guardato attoniti il crollo di alcune grandi del calcio, tra cui noi stessi.

Abbiamo, qui, deciso di tirare le somme, non singolarmente ma unendo più voci diverse: Giuseppe De Bellis, Davide Coppo, direttore e caporedattore di Undici; Pierluigi Pardo, giornalista Mediaset; Michele Dalai, giornalista e scrittore; Cesare Alemanni, editor at large di Studio; Fulvio Paglialunga, conduttore radiofonico e scrittore. Sei domande, sei risposte ciascuno, sei punti di vista a volte vicini a volte lontani. Buona lettura, e buona attesa, mancano solo altri quattro anni.


 

1 – Che cosa resta del Mondiale tatticamente?

Giuseppe De Bellis – La cosa più ovvia è che l’organizzazione vince. Ha vinto la squadra che oggettivamente ha fatto dell’organizzazione il suo punto di forza.

Pierluigi Pardo – Non si vince senza equilibrio (vedi Scolari e Del Bosque). Bisogna essere freschi e correre (come Germania e Olanda) e anche tirare in porta può essere utile. Ma a noi italiani, stavolta, non andava.

Davide Coppo – È un po’ azzardato, ma c’è del fondo di verità: è stato un Mondiale di ottime difese, soprattutto nella seconda parte, quella dell’eliminazione diretta, e in generale di un livellamento tra squadre tradizionalmente forti e squadre tradizionalmente deboli. Questo non vuol dire che d’ora in poi ci saranno sempre squadre più livellate, con meno spigoli e meno differenze, perché il processo è lunghissimo e non si svolta in un Mondiale solo (così come non ha senso proclamare la fine del tiqui taca). Però è stato un Mondiale con squadre inaspettatamente solide che hanno fermato squadre altrettanto solide ma più forti, diciamo, sulla carta: l’Argentina in primis, con la miglior difesa del torneo; la Costa Rica; l’Olanda; la Germania; perfino l’Algeria, il Cile, il Belgio. Dirai: sì ma il Brasile ha subito 10 gol in 2 partite. Ti rispondo: sì, ma quella è la variabile impazzita, dai. Quella è l’imprevedibilità che cade sulla terra una volta ogni cinquant’anni.

Cesare Alemanni – Non si sono viste grandi novità. Più che altro conferme di alcuni trend degli ultimi anni, tra cui l’importanza di avere un centrocampo in cui tutti hanno abbastanza corsa da distruggere il gioco avversario e piedi abbastanza buoni da partecipare alla costruzione del proprio, la crisi del centravanti classico isolato là davanti, il ritorno delle mezzali, l’eclissi del tiki-taka, il fallimento di chi ha giocato sotto-ritmo pensando che bastasse una buona circolazione di palla per vincere le partite.

Federico Sarica – Tatticamente nulla di nuovo. Anzi, se dobbiamo metterci a individuare il punto debole di un Mondiale che francamente ne ha avuti pochi, è che dal punto di vista tattico si era già visto più o meno tutto. Si è parlato di ritorno del trequartista, del 10, ma direi che a conti fatti altro non era che l’aggiornamento di un classico delle grandi competizioni a livello di nazionali: l’affidarsi ai singoli visto il poco tempo a disposizione dei vari ct per mettersi in pari con l’evoluzione tattica raggiunta ormai dai migliori club del mondo. Questo non vuol dire che non si sia visto dell’ottimo calcio, anzi: credo sia stato un piccolo grande manuale di esecuzione e applicazione dei dettami classici. Menzioni d’onore: le difese a 4 di Germania, Argentina, Olanda e Costa Rica (con un fuorigioco meraviglioso), le cerniere intercambiabili fra attacco e centrocampo di Germania e Colombia.

Michele Dalai – Resta l’impressione di un enorme livellamento tattico, di standard ormai condivisi e della grande difficoltà di uscire da schemi molto rigidi. I pochissimi in grado di saltare l’uomo, di forzare la superiorità numerica hanno regalato i pochi momenti di vera imprevedibilità, la densità difensiva e la geometria di squadre solo ipoteticamente sprovvedute hanno sorpreso (più o meno piacevolmente), e ridotto di molto lo spettacolo. La cifra di quasi tutte le nazionali è stata l’intensità, in alcuni casi forzata fino al confine ultimo con l’aggressività. Pressing e movimenti senza palla hanno fatto la differenza, la lezione della Spagna è stata assorbita e superata.

Fulvio Paglialunga – Per quanto sia stato un Mondiale in alcuni frangenti di altissimo valore emotivo, non è stato esattamente memorabile per le innovazioni tattiche. Alcune partite non sono state belle da vedersi se non avessero avuto un racconto di fondo. Penso, per fare un esempio, a Olanda-Costarica: senza la mossa di Van Gaal e l’emozione dei rigori (che sono un’emozione quando toccano agli altri, altrimenti sono crudeli) sarebbe finita nel dimenticatoio in fretta. Ho visto, sparso un po’ qua e un po’ là, un ritorno ad alcune marcature a uomo. Forse alla fine questa assenza di novità e di idee particolarmente geniali dal punto di vista tattico ha permesso che i risultati da un certo punto in poi cominciassero a diventare scontati: agli ottavi sono arrivate le prime del girone, e via vincendo fino al successo “programmato” della Germania.

 

2 – Un nome che resta alla fine del Mondiale (James Rodriguez non vale)

Giuseppe De Bellis – Neymar per il mondo. Per l’assenza e per la presenza. Perché a 22 anni ha una maturità che nessuno gli attribuiva prima di questo Mondiale. Si pensava a un ragazzino viziato, a una figurina, a un prodotto. Ha dimostrato di essere uno determinante. Ha dimostrato anche che da solo ha un peso che nessun brasiliano dopo Pelé ha avuto. Il Barcellona ci aveva consegnato un giocatore quasi dimesso, capace di mettersi al servizio, quasi soggiogato dalla presenza e dalla forza di Messi. Non è così: è stato l’unico brasiliano a reggere alla tensione prima del tracollo. Verratti per noi. Perché è quello attorno al quale vale la pena ricostruire un progetto tattico e tecnico.

Pierluigi Pardo – Müller è il giocatore moderno. Tutti i ruoli dell’attacco. Fresco e tecnico, talentuoso e generoso. Segna tantissimo per quello che produce anche extra-area di rigore. È il mio Mvp, altro che Messi.

Davide Coppo – Manuel Neuer. Ieri sera, prima della partita, pensavo che se avesse giocato una grande finale avremmo potuto vedere, decenni dopo Lev Jašin, un portiere Pallone d’Oro. Non sarebbe un premio al suo valore assoluto – sono certo che Neuer non sia il miglior portiere del mondo – ma al Mondiale straordinario che ha giocato. Giocare come gioca Neuer è difficilissimo: ci vogliono piedi educati, ci vuole coraggio e soprattutto fiducia nei propri mezzi, cioè nei piedi educati e nel tempismo. Sono doti rare, magari non singolarmente, di sicuro tutte insieme: ci sono portieri con i piedi educati e portieri coraggiosi, ma spesso i coraggiosi sbagliano molto, e quelli con i piedi educati non rischiano troppo. Neuer, giocando così avanti, da difensore aggiunto, permette alla difesa di stare molto alta – il che può essere un rischio, come si è visto durante la finale in cui Hummels e Boateng sono stati letteralmente graziati più volte – e, cosa importantissima, permette alla squadra di saltare delle fasi di costruzione e di prendere gli avversari di sprovvista, quando sono ancora disposti offensivamente. Sarebbe meglio dire che, più che un difensore, Manuel Neuer è un regista aggiunto, lo ha fatto vedere con i piedi e, contro l’Argentina, anche con le mani. Ovviamente un portiere non gioca così semplicemente perché gli va: dev’essere l’allenatore a programmare tutta la squadra intorno a lui, alla sua posizione, ai suoi lanci e ai suoi tackle. Un’altra cosa da notare su Neuer è la capacità di stare in piedi: lo si è visto, per fare un singolo esempio, nel quarto di finale contro la Francia, quando Benzema dal limite dell’area piccola tira sul primo palo una palla alta, che andrebbe dritta sotto la traversa, e 99 portieri su 100 avrebbero anticipato il tuffo, come Romero su Götze, o si sarebbero messi bassi sulle gambe pronti a scattare, come Seaman su Batistuta nel 1999, invece Neuer sta in piedi, e alza solo un braccio: è contro l’istinto che ti dice “tuffati!”, ed è incredibile. E poi sarebbe un grande statement: anche i portieri possono essere decisivi come le punte. Lo era già stato Buffon nel 2006, più meritevole di Cannavaro, ma mi accontenterei anche di un tedesco della Renania, non proprio la mia tazza di tè.

Cesare Alemanni – Ne dico tre. 1) Schürrle. Perché partendo dalla panchina ha fatto le cose più decisive (gol all’Algeria e passaggio a Götze) nei due momenti più delicati per la squadra campione. 2) Mascherano. Perché, quando tutti lo davano ormai dato per bollito, ha giocato forse il miglior mondiale di tutti. 3) Suarez. Perché, 7-1 a parte, il suo morso è l’unica cosa di questo Mondiale di cui si parlerà ancora tra vent’anni.

Federico Sarica – Se James non vale (di gran lunga quello con la resa e i colpi migliori), scorro la classifica cannonieri e mi fermo al secondo gradino del podio: Müller. Per due ragioni: a) chi segna ha sempre ragione; b) chi lo fa nella squadra che vince il Mondiale #sulcampo ne ha ancora di più.

Michele Dalai – Wijnaldum, centrocampista eccezionale per sostanza e qualità, con De Jong a mezzo servizio ha corso e creato per due.

Fulvio Paglialunga – Ne dico due. Uno molto sinteticamente: Mascherano ha giocato un Mondiale mostruoso, contribuendo a entrambe le fasi, coprendo i centrali di difesa, donandosi molto e con una generosità impressionante (fino a farsi molto male per fermare Robben nella semifinale), mettendo dentro carattere e tecnica. L’altro più argomentato è il nome che forse realmente resterà: Manuel Neuer sarebbe stato, in un Mondiale giusto anche da parte degli organizzatori, il migliore in assoluto (e invece il premio è andato indecorosamente a Messi, che non ha finito bene). Neuer sembra in grado di ridefinire proprio il ruolo del portiere, inteso finalmente come un giocatore in più, forse come mai da quando il passaggio indietro è reso impossibile e dunque devono anche giocarla con i piedi: ha fatto da libero, ha tenuto alta e corta la squadra senza però perdere credibilità tra i pali. Perché portieri temerari nelle uscite ne abbiamo visti, ma in altri casi erano poi dei flop quando si trattava di parare. Invece Neuer ha parato veramente tutto e in alcuni casi con una superiorità spontaneamente irridente. Come contro Benzema, nel quarto con la Francia: impressionante.

 

3 – Al di là della retorica “Messi non è Maradona” , che cosa gli manca – se qualcosa gli manca – per vincere un Mondiale?

Giuseppe De Bellis – A Messi mancano i compagni. L’abbiamo visto vincere tutto a Barcellona in una squadra fatta di campioni. L’Argentina non ha Xavi, Iniesta, Eto’o, Puyol, Pedro. Molti hanno paragonato questa Argentina a quella dell’86. Sicuri? E sicuri che semmai fossero paragonabili i singoli, sia paragonabile il calcio di allora con quello di oggi? L’incidenza del singolo oggi è inferiore a quella di 25-30 anni fa.

Pierluigi Pardo – Gli psicanalisti possono parlare per ore di leadership e maschio Alfa. Certamente non ha la personalità di Diego. Forse giocare in una squadra di club così dominante non allena il suo carattere. Ma sono congetture. La distanza tra trionfo e fallimento a questi livelli è roba di centimetri. Caso, destino, eternità.

Davide Coppo – Gli è mancata la squadra, gli è mancato Di Maria, gli è mancata la sua posizione. Messi è il giocatore più straordinario del mondo, forse non più forte di Cristiano ma di sicuro più alieno, e non deve vincere un Mondiale per dimostrare qualcosa. Mi ha spezzato il cuore il momento della consegna del Pallone d’Oro del Mondiale: lo prende in mano, ha lo sguardo basso, ascolta i complimenti con un sorriso triste, dà la mano a Neuer, e intanto l’intera delegazione Fifa, questi vecchi che potrebbero essere i suoi nonni lo guardano preoccupati, commossi e preoccupati, sembrano pensare «povero ragazzo, speriamo si riprenda». Non è Messi che ha tradito l’Argentina, è l’Argentina che ha lasciato solo Messi.

Cesare Alemanni – Passarella e Valdano… valgono come risposta? Battute a parte, credo che non gli manchi nulla. Semplicemente, a differenza di 30 anni fa, nel calcio del 2014 un singolo giocatore, per quanto forte, non può vincere un Mondiale da solo. Specie se i suoi compagni si divorano gol fatti, mancano stop elementari, il suo allenatore gli affida compiti da giocatore qualsiasi e le ultime due partite decisive le deve giocare senza l’unico compagno in grado di parlare una lingua vicina alla sua (Di Maria). E a chi sostiene che Messi è solo un finalizzatore e non sa creare occasioni per i compagni suggerisco di riguardarsi il rasoterra di quaranta metri con cui Leo ha messo Di Maria di fronte al portiere della Svizzera (il singolo gesto tecnico più bello di tutto il Mondiale, secondo me).

Federico Sarica – Di Maria in finale, e Carlitos Tevez in squadra. Punto. Ma più che a Messi – a lui non manca nulla, resta uno dei più grandi di sempre, un giocatore immenso, discutere Messi oggi fa ridere – sono mancati all’Argentina, che ha comunque disputato una gran finale, giù il cappello.

Michele Dalai – Non gli manca nulla ma non è più tempo di Mondiali vinti da solo. Il calcio è cambiato, l’organizzazione difensiva è la prima arma di ogni squadra. Temo fosse anche molto in difficoltà fisicamente, alla fine.

Fulvio Paglialunga – A Messi manca qualcosa e credo che la più grande delle risposte la conosca lui, visto che – prendendo solo la finale – nel primo tempo è stato capace in un’azione di dare l’impressione di attraversare fisicamente gli avversari senza nemmeno sforzarsi di dribblarli e nel secondo tempo è scomparso o quasi. In mezzo il solito malore, qualche botta ma comunque un freno misterioso. Ma qui siamo nel campo del tecnico, mentre io credo che a Messi fondamentalmente manchi il sorriso: un talento come lui potrebbe anche mostrare più gioia, un po’ di sregolatezza e invece sembra prodotto in laboratorio. Quindi va bene nel calcio ultramoderno, ma non quando in palio c’è tantissimo. Conosco l’obiezione: ha vinto cose molte importanti. Rispondo: il Mondiale, poi il Mondiale con la maglia dell’Argentina, vale di più. E quindi il suo volto impassibile e la sua in alcuni casi insopportabile perfezione non ha retto. Ecco, psicologicamente mi è sembrato indebolito.


4 – Abbiamo scritto e letto: è stato il Mondiale dei portieri. Questo è indicativo di un’evoluzione degli stili di gioco o no?

Giuseppe De Bellis – Sì. È il mondiale dell’era contemporanea (post guerra, dico) in cui s’è segnato di più: 171 gol, come a Francia 1998. Sedici anni e quattro Mondiali dopo si può dedurre che qualcosa sia accaduto. Ed effettivamente è accaduto: molte più squadre giocano con tre attaccanti. Significa che la pressione sulle difese è maggiore, significa che si tira di più. Non possiamo dire che il Mondiale dei portieri abbia aperto una nuova era, possiamo dire che la tendenza che ci lascia questo Mondiale è a una spregiudicatezza maggiore che quindi rende il portiere più centrale nelle statistiche della squadra.

Pierluigi Pardo – Dopo parecchio tempo nessuno si è lamentato delle traiettorie del pallone, è stato il trionfo dei portieri. Neuer numero uno per distacco, ma anche Navas e Ochoa. Non ci vedo grandi filosofie dietro. È successo e basta. Applausi.

Davide Coppo – Non credo: a parte il caso Neuer, di cui ho scritto poco sopra, abbiamo visto grandi portieri fare grandi parate, quindi fare una cosa molto ortodossa per dei portieri. Mi sembra che i portieri siano sempre poco coinvolti nella manovra delle squadre e, come ho detto in questo pezzo precedente proprio sul “Mondiale dei portieri”, non dobbiamo scambiare delle parate spettacolari per un portiere forte: Ochoa e le sue uscite mancate sono l’esempio massimo.

Cesare Alemanni – No, o al massimo può valere solo per la Germania, nella quale Neuer ha effettivamente giocato almeno un paio di partite sulla propria trequarti. Mi pare invece che Ochoa, Howard e gli altri portieri che escono bene da questo Mondiale si siano limitati a fare quello che fanno i portieri da quando esiste questo sport: parare.

Federico Sarica – Credo sia difficile legare l’exploit di alcuni portieri con l’evoluzione del gioco. Bisognerebbe dare un occhio alle statistiche per capire se si è effettivamente tirato di più in porta, ad esempio. Come mi è difficile trovare un trait d’union fra le prestazioni di un Neuer e di un Keylor Navas, ad esempio. Giocatori diversi, storie diverse, squadre e obiettivi diversi. Piuttosto, credo che il Mondiale sia il torneo dei portieri per eccellenza: la possibilità di concentrare l’esplosività fisica in poche settimane, l’alta densità di partite e di momenti decisivi, un tatticismo meno lucchettato rispetto al calcio dei club, molti rigori, molti supplementari.

Michele Dalai – Non credo, ho visto più che altro portieri migliori della media degli ultimi mondiali. Navas, Neuer, Ochoa e Howard hanno giocato ottime partite senza che le loro squadre snaturassero il loto gioco.

Fulvio Paglialunga – I portieri sono uomini che creano storie da soli e quindi il Mondiale dei portieri per me è stato tale proprio per quanto hanno prodotto dal punto di vista narrativo. Poi, certo: di Neuer ho parlato prima, Howard è un fenomeno e anche altri sono stati molto bravi. Però può essere il Mondiale dei portieri anche per Romero, che è stato un eroe in semifinale ma il suo valore mi pare un po’ inferiore a quello del portiere vice campione del Mondo. Non sono sicuro che sia indicativo di qualche evoluzione del gioco, perché la risposta in tal caso potrebbe essere che i portieri avanzano perché si attacca di più, ma le ultime partite non sono state proprio un inno al gioco offensivo. Forse abbiamo solo imparato ad apprezzarli di più. Io, ad esempio.

 

5 – America vs Europa vs Africa vs Asia: come cambiano, se cambiano, gli equilibri del calcio Mondiale dopo Brasile 2014?

Giuseppe De Bellis – Non cambiano, non ancora. S’è ridotta la distanza tra Europa e continenti calcisticamente emergenti (Asia e Africa). S’è ridotta anche la distanza che s’era creata negli ultimi 8 anni tra Europa e Sudamerica (nel 2006 quattro semifinaliste tutte europee, nel 2010 tre europee e una sudamericana). Questo ha reso il Mondiale più combattuto, più aperto, più incerto. Però non significa ancora che gli equilibri siano cambiati. Semmai il risultato complessivo indica una “restaurazione”: nel 2006 e nel 2010 Uruguay e Portogallo erano state sorprendenti , qui invece in semifinale sono arrivate quattro potenze. La delusione è ovviamente l’Africa, ancora lontana dalle promesse post 82. Sono 9 mondiali che ci dicono “questo è l’anno di un’africana”: non arrivano da nessuna parte.

Pierluigi Pardo – Forse la prossima volta ci risparmieranno la tiritera sulle africane e la volta buona. Brutta roba il loro Mondiale. Fuori malissimo. Storiacce quelle di Camerun e Ghana. L’Europa domina da anni. Logico. Il calcio migliore, il più equilibrato è da noi. In Sud America nascono grandi talenti che l’Europa inevitabilmente migliora.

Davide Coppo – L’America, il continente, ha dimostrato di saperci fare ben al di là delle solite due, Brasile e Argentin: il Cile meritava molto più di un ottavo di finale, la Colombia forse più di un quarto, l’Uruguay è andato benino, gli Usa pure, il Messico ha fatto una grande partita contro l’Olanda e la Costa Rica è stata una grande rivelazione. Il fattore climatico ha influito, e non dev’essere un alibi per le europee andate male, ma non si può nemmeno far finta di niente: non si giocava in Svizzera alle 17, ma a Manaus alle 13. L’Africa, per l’ennesima volta, dimostra di essere ad anni luce dal resto del mondo.

Cesare Alemanni – Il Mondiale ha detto che il Sud America non si ferma al duopolio Brasile/Argentina ma che stanno crescendo altre realtà, vedremo poi se saranno effettivamente in grado di consolidarsi o se si tratta di fuochi di paglia come in passato. Per quanto riguarda Brasile e Argentina direi questo: 1) Al di là dei catastrofismi, i brasiliani hanno bisogno di non giocare mai più un Mondiale in Brasile e di evitare che il prossimo Pato, se ci sarà, si bruci in tre anni lasciandoli in balia di Fred; 2) L’Argentina ha bisogno di uscire dagli equivoci dei Messi minori – tipo Agüero e, in misura minore, Lavezzi – e di un allenatore meno incapace, per una volta. Per quanto riguarda l’Europa i verdetti sono banali: l’Inghilterra ormai è solo un nome e tra poco non sarà più nemmeno quello. La Francia dei Benzema, Pogba, Matuidi eccetera è una seria candidata al prossimo Europeo e, dati i successi dell’Under 20, anche al prossimo Mondiale. Il Belgio deve crescere come testa e convinzione ma ha in Hazard il potenziale miglior giocatore europeo dei prossimi cinque anni, se trova due terzini di ruolo e cresce bene Origi una semifinale da qui al 2020 la farà. La Germania ha una generazione d’oro al suo apice: sarà la favorita all’Europeo ma per il prossimo Mondiale dipende tutto da come verrà gestito il ricambio. La Spagna non la darei per morta troppo presto, visti i risultati delle sue selezioni giovanili, mentre l’Olanda continuerà felicemente a essere la splendida incompiuta che è da quarant’anni a questa parte. L’Italia? Se il nuovo allenatore non deciderà di buttare il buon lavoro di quattro anni in convocazioni assurde e 180 minuti di follia tattica, magari non vincerà nemmeno il prossimo Mondiale ma almeno non uscirà ai gruppi.

Federico Sarica – Poco. Il calcio europeo, nel suo insieme, resta un gradino avanti rispetto a quello sudamericano. Gli altri guardano ai piedi della scalinata. È un dato di fatto. Poi, certo, possiamo raccontarci di quanto gli americani ci stiano provando con discreti risultati, possiamo sederci ad aspettare ulteriormente il sempre divertente calcio africano, possiamo seguire con interesse il campionato australiano (io l’ho fatto per due anni, finché c’era Del Piero), possiamo fare le finali di Coppa Italia a Pechino. Però fa sempre un po’ quell’effetto di quando gioca la nazionale di rugby all’Olimpico, no?

Michele Dalai – Ne escono molto ridimensionati il calcio africano e quello asiatico, il delta tra continenti si è di nuovo allargato a favore delle nazionali storiche, del calcio più antico.

Fulvio Paglialunga – È una domanda che ci poniamo ogni anno e poi alla fine non escono grandissime sorprese (persino l’Olanda, che sembrava aver distrutto da sola il modello spagnolo, ha fatto un passo indietro rispetto all’ultimo edizione parlando del podio). Che tutti i modelli si stiano avvicinando, anche perché se prendiamo alcune formazioni che hanno ben impressionato come la Colombia (ma non solo) sono ormai piene di giocatori di squadre di altissimo livello internazionale e le continuiamo a guardare come fossero terzo mondo del pallone (per inciso: dovrebbe cominciare l’Italia a pensare un po’ da terzo mondo e mandare i propri giovani in club di altissimo valore internazionale, visto che i nostri lo sono sempre meno). Forse però è il Mondiale che ci ha detto che fra quattro anni potrebbe esserci un competitor di livello anche per le Nazionali migliori: conviene seguire il calcio Usa molto più da vicino. La grande espansione e il livello di crescita più spudorato l’ho visto lì.

 

6 – Quale grande storia ci porteremo dietro da questa Coppa del Mondo?

Giuseppe De Bellis – La storia che ci portiamo in realtà è un insegnamento. Si può ricostruire un sistema calcio: l’abbiamo visto quest’anno. La Germania s’è ricostruita. Il Belgio s’è ricostruito. La Colombia s’è ricostruita. Questo è stato il mondiale del lavoro che vince sul talento, ammesso che siano due cose separabili (e a me non sembra proprio). Tranne Neymar di cui sopra e tranne le storie strane di alcuni portieri (Ococha del Messico, Krul dell’Olanda, Navas della Costa Rica) non ci sono storie notevoli che superano il calcio. Il Mondiale lascia in eredità un fenomeno socio-economico più che un fenomeno tecnico. E forse per l’Italia questo è un bene. Perché non lascia margine per gli alibi.

Pierluigi Pardo –Un Paese diverso dagli stereotipi. Con ottima birra e pessimi caffè. Disuguaglianze e capogiri, favelas e caipirinhas. Ha vinto la Germania, che ha programmato tutto, da anni. E i ritiri aperti, lasciamoli a chi li sa fare.

Davide Coppo – Lo shock del Brasile, il terrore negli occhi dei calciatori, le lacrime, l’ansia da prestazione implosa in un dramma calcistico e culturale enorme: l’incapacità dei brasiliani di reggere la pressione. Non so se possa essere davvero un’ipotesi accettabile, ma questa sconfitta è – mi sembra – figlia della necessità di dimostrare al mondo intero che il calcio è roba loro, che sono i predestinati, che nessuno è come loro. E questa cosa mi ha ricordato una cosa tipicamente lusitana, una specie di precedente extra-calcistico: la scomparsa, nel 1578, del re portoghese Sebastião I nella battaglia di Alcácer-Quibir, in Marocco. Scomparve, sicuramente morì ma non fu mai ritrovato, e nacque una leggenda che dice molto della cultura lusitana e, in parte per estensione, brasiliana: si diceva che Sebastião sarebbe ritornato nel mondo come un secondo Cristo, e che avrebbe annunciato a tutte le genti che i portoghesi erano il vero popolo eletto. Non è mai successo, e il Portogallo subì una crisi dinastica così grave che la corona dovette unirsi a quella spagnola.

Cesare Alemanni – Beh, ovviamente il 7-1 al Brasile e il 5-1 alla Spagna. Poi, come detto, il morso di Suarez. Ma pure lo shock per l’infortunio di Neymar. Anche se forse l’immagine più forte di tutto il Mondiale per me resterà lo sguardo di Messi braccato dalle telecamere a fine partita, ieri sera. Lo so, è retorica e pure un po’ voyeurismo, ma in quello sguardo c’erano tutte le ragioni per cui ci emozioniamo per questo crudelissimo sport.

Federico Sarica – Ci porteremo dietro l’incredibile capacità del gioco più bello del mondo di non fermarsi davanti alla storia. Gli ingredienti per morire di nostalgia c’erano tutti: il Brasile, il Maracanazo, la Germania spietata, l’Italia in formato Corea, Maradona es màs grande que Pelé, etc. Eppure questo è stato un Mondiale a colori, giocato dai ragazzi di oggi per il mondo di oggi. Con delle storie incredibili in campo e fuori certo, ma rese ancora più incredibili da un racconto che migliora di volta in volta. La tecnologia, ma anche la preparazione di addetti ai lavori e pubblico, l’orgoglio e la capacità degli appassionati come noi di trascinare dentro al nostro bistrattato parco giochi il resto del mondo. “Brasil decime qué se siente”, a Copacabana come su Vine, Twitter e Youtube. La grande storia di questo Mondiale è stata questo Mondiale stesso. La conferma che questo è, appunto, il gioco più bello del mondo. E lo sarà per sempre.

Michele Dalai – Quella di Neymar e della scoperta della sua umanità. Finita l’era dell’icona, del cartoon buono per gli sponsor e iniziata quella del ragazzo che si era caricato il Brasile sulle spalle.

Fulvio Paglialunga – Ci porteremo dietro Howard (tecnicamente l’ho detto, il resto risponde alla sua storia personale), l’essere “umano” di David Luiz, la follia lucida di Van Gaal prima dei rigori, le smorfie buffe e l’incontenibilità di Miguel Herrera, ma un elenco davvero lunghissimo di vicende che dal punto di vista emotivo hanno colpito nel segno, forse anche agevolati dal moltiplicarsi di strumenti che ci permettono di conoscere proprio tutto. Forse lo ripeto, ma da questo punto di vista è stato davvero un Mondiale indimenticabile. Ma di tutto questo, fra qualche anno e per moltissimi anni, ci resterà soprattutto il Mineiraço, la notte in cui il Brasile ne prese sette, cinque in mezz’ora, la semifinale assurda e mai immaginata da nessuno. Ne parleremo come ora parliamo del 1950. Con sfumature diverse, ma poter raccontare tutto quello che si è visto e vissuto in quei giorni sarà la vera memoria di questa edizione. Per tutti, credo. Un po’ sadicamente.

 

Nell’immagine, i festeggiamenti della Germania. Matthias Hangst / Getty Images