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Cheer extreme

Viaggio nel mondo delle cheerleader. Che un tempo erano solo uomini e oggi, contrariamente a quanto si pensa, non sono solo bionde ragazzine americane, ma atleti veri e propri. Chi celebrity e chi sottopagato. E in Italia sono circa 7000

di Marta Casadei

«Hands on your hips, a smile on your lips, spirit in your heart, we’re ready to start!». Immaginatele: uniformi colorate; code di cavallo e pon pon che si muovono a tempo disegnando linee e semicerchi; salti di oltre cinque metri e sorrisi smaglianti. Sono le cheerleader, e una volta nella vita (almeno in un film) le abbiamo viste tutti.

Il loro proverbiale e quasi lisergico entusiasmo, tuttavia, è solo una delle tante caratteristiche che hanno contributo a renderle un fenomeno intramontabile. Il cheerleading, infatti, non è solo un’attività scolastica per ragazzine americane bionde e dal fisico invidiabile, ma è una vera e propria professione. Nonché un business. E ha valicato i confini dei 50 stati per attecchire anche in Italia.

Per capire di cosa si parla quando si parla di cheerleader (letteralmente “persona che guida il tifo”) bisogna abbandonare ogni tipo di preconcetto maturato verso le ragazze pon pon complici i telefilm americani che le dipingono come sgallettate in minigonna con i capelli platino e le unghie laccate e considerarle prima di tutto delle atlete. Di fatto, lo sono. Tanto che la “letteratura” sul tema – si tratta di video letteratura per teenager, chiariamoci – conta film e telefilm che non fanno che presentarle come kick-ass girls: delle dure, in poche parole. Uno dei telefilm sul tema, Hellcats, andato in onda sulla rete americana The CW per una sola stagione, non fa che mostrare duri allenamenti e competitività alle stelle. Formula simile a quella di Make it or Break it, serie americana che racconta le vicende della nazionale Usa di ginnastica artistica. Lo stesso hanno fatto teenager-movie come Bring it On, nella versione del 2000 con Kirsten Dunst o in quella Bring it on-all or nothing del 2006 con Hayden Panettiere: entrambe condite da atmosfere da teen drama, invidie varie e inevitabilmente campi da football.

Da sapere sulle cheerleader: primo, dunque, sono delle atlete. I loro repertori sono molto simili a quelli delle ginnaste (fatta eccezione per l’uso degli altrezzi) con tanto di capriole in aria, piramidi umane. E le inevitabili – ma anche divertenti – coreografie di gruppo. Secondo, le cheerleader non sono solo donne. Anzi. In origine queste persone incaricate di trainare il pubblico a sostegno della squadra in campo erano esclusivamente uomini.


Nel video: una performance delle Dolphins cheerleader

L’origine di quella che oggi è a tutti gli effetti una disciplina sportiva è da ricercarsi alla fine dell’Ottocento e, più precisamente, nel coté di un match universitario tra la squadra di Princeton e quella di Rutgers. L’iniziativa presa in quell’occasione dalla tifoseria di Princeton, che cominciò a urlare slogan a ripetizione per sostenere il proprio team, riscosse un tale successo da diventare una vera e propria abitudine: nacquero all’epoca gli yell leader che, tuttavia, se ne stavano seduti comodi sugli spalti urlando frasi di incoraggiamento (e trascinando la folla con sé). Agli yell leader di Princeton si ispirò a sua volta, nel 1898, la University of Minnesota che, tuttavia, scelse di far correre i propri incitatori a bordo campo. Erano nati i cheerleader. Per vedere il gentil sesso cimentarsi in coreografie iper studiate e salti fino a 8 metri di altezza con divise dall’appeal sexy e i famosi pon pon bisogna aspettare il secondo dopoguerra: il padre del moderno cheerleading è Lawrence Herkimer, cheerleader alla Southern Methodist University, inventore (per caso) di uno dei salti più famosi nell’ambito della disciplina (il salto Herkie, appunto) e fondatore della National Cheerleader Association. Fu lui il primo a introdurre divise e pon pon – dei pon pon con impugnatura nascosta ha perfino registrato il marchio presso il United States Patent and Trademark Office nel 1971.

Negli Stati Uniti le cheerleader sono delle vere e proprie star: il magazine americano Business Insider ha dedicato un intero articolo alle “cheerlebrities of Instagram” le cheerleader – molte delle quali sono bionde e vanno ancora a scuola – diventate delle vere e proprie celebrity grazie al famoso social network delle immagini. «Non puoi vederle in tv e raramente compaiono sui media tradizionali – dice il pezzo –; queste star vivono dentro i vostri telefoni, acquisendo follower a migliaia e siglando contratti con le aziende che producono accessori per capelli». Tra le cheerlebrities spicca la giovanissima Carly Manning, 421mila follower su Instagram che chissà per quanto rimarranno tali: bionda, molto minuta e altrettanto atletica, ha cominciato a fare la cheerleader all’età di 4 anni come racconta in questo profilo pubblicato su Teen Vogue, bibbia delle adolescenti stylish. Oggi Carly vive e si allena in Texas, a Piano: è la stella dei Wildcats, squadra all-star dei Cheer Athletics (la più grande società di cheerleafding all star – che quindi non supporta una squadra in particolare – al mondo), che si esibisce in tutti gli Stati Uniti e, ovviamente, partecipa a competizioni di altissimo livello. Carly fino ad oggi ha all’attivo tre vittorie ai campionati del mondo, ma davanti a sé ha una lunga carriera avendo si e no 15 anni.


Nel video: una performance del team Columbus High School

La prossima edizione dei campionati del mondo, i Cheerleading Worlds, si terrà il 26 e 27 aprile presso il Disney’s Wide World of Sports di Orlando, in Florida. E, sebbene quattro squadre italiane (nella fattispecie: S.B. Cheer, Rainbow, Rocks Cheerleaders e Labronic) siano state ammesse, non parteciperanno alla più importante competizione mondiale di cheerleading per mancanza di fondi. In Italia, dunque, il cheerleading esiste: dal 2009, anno di nascita della Federazione Italiana Cheerleading, ha assunto una vera e propria dignità sportiva. Ma non è certo un fenomeno di massa. «Abbiamo circa 7mila iscritti – dice Valentina Peddiu, segretario generale della Federazione nonché istruttrice e cheerleader a sua volta – dai 5 ai 45 anni, uomini e donne. Il nostro obiettivo è quello di far capire che il cheerleading è un vero e proprio sport: a questo proposito abbiamo voluto portare la disciplina nelle scuole elementari, medie e superiori, in collaborazione con la Federazione Italiana di Football Americano. La mancata partecipazione dei team italiani ai mondiali, tuttavia, fa capire che, nonostante in Italia il cheerleading stia prendendo piede, questo sport ha ancora bisogno di crescere in termini di popolarità: «Le squadre non hanno potuto prendere parte ai Cheerleading Worlds per mancanza di sponsor: abbiamo contribuito ad andare oltre alcuni stereotipi, ma non siamo ancora abbastanza famosi da attrarre finanziamenti appetibili». Al di là delle competizioni agonistiche – in Italia si svolgono i campionati nazionali, l’ultima fase delle quali andrà in scena a Bellaria il 23 il 24 maggio; i campionati europei si svolgeranno invece a Bonn a giugno – il cheerleading è in Italia anche un’occasione di divertimento. A confermarcelo è Diana Lana, coordinatrice del team All Star Milano: «La nostra squadra è stata fondata nel 2009 da una ragazza norvegese; l’obiettivo era quello di supportare i Rhinos, una squadra di football americano basata a Milano. Oggi è principalmente un contesto nel quale divertirsi: siamo 10 ragazze tra i 25 e i 35 anni, ci alleniamo due volte alla settimana e facciamo esibizioni ed eventi su richiesta». Nessuna delle ragazze è una cheerleader a livello professionale: «A volte ci chiamano per aprire la serata nelle discoteche – dice Diana che ha 27 anni e vanta una formazione nella danza – ma, sia chiaro, non lavoriamo come cubiste. E non percepiamo un compenso: ci danno un rimborso spese, tutto qui».

Negli Stati Uniti la questione è ben diversa: quello da cheerleader è un lavoro. A dimostrare che il cheerleading sia considerata una vera e propria professione sportiva è la causa legale intentata a gennaio 2014 da alcune cheerleader dei Raiders di Oakland, nel nord della California, alla società “colpevole” di pagarle solo cinque dollari l’ora (1250 dollari per 10 partite), contrariamente al minimo sindacale di otto dollari stabilito per legge dal Sun State. Il tutto senza nemmeno un rimborso spese per i viaggi, il trucco e parrucco (fondamentale per le cheerleader) e i costumi. Due mesi dopo il Department of Labor di San Francisco ha però chiuso l’indagine pronunciandosi a favore della società: le cheerlader sarebbero infatti considerate “lavoratori stagionali” poiché impiegate solo per sette mesi l’anno. In seguito a questo procedimento anche Alexa Brenneman, 24enne cheerleader dei Cincinnati Bengals, un’altra squadra della National Football League, ha citato in giudizio la società di riferimento per lo stesso motivo: Brenneman ha infatti ricevuto un compenso pari a 855 dollari per un totale di circa 300 ore di lavoro, circa 2,85 dollari l’ora contro i 7,85 che costituiscono il minimo sindacale in Ohio. Quello dei team della NFL, invece, è un business decisamente ricco e in crescita: 9 miliardi di ricavi nel 2012 che dovrebbero diventare 25 entro il 20127.

Anche le singole squadre non se la passano certo male: il valore degli Oakland Riders nel 2012 è stato, secondo Forbes, di 825 milioni di dollari; la società ha chiuso il 2012 con ricavi per 229 milioni, utile operativo di 19,1 milioni. Ben 131 milioni sono stati spesi per i giocatori (sempre secondo Forbes) alle cheerleader, invece, sono andati 1250 dollari per 10 partite (a cui si aggiungono 10 partecipazioni gratuite ad eventi di beneficienza).

A lungo andare i compensi da fame eroderanno l’entusiasmo come accade in tutti i lavori? Forse no, se, dopo tutto, la cheerleader- filosofia rimane questa: «Fly high, do or die, dare to dream, cheer extreme».
 

Nella gallery:

In evidenza: Creighton v Baylor, AT&T Center – 23 marzo 2014, San Antonio, Texas

Cleveland Cavaliers v Atlanta Hawks, Philips Arena – 4 aprile 2014, Atlanta, Georgia

Wisconsin v Arizona, Honda Center, 29 marzo 2014, Anaheim, California.

Carolina Panthers v Atlanta Falcons Georgia Dome, 29 dicembre 2013, Atlanta, Georgia.

Seattle Seahawks v Atlanta Falcons Georgia Dome, 10 novembre 2013, Atlanta, Georgia

Gonzaga Bulldogs v Arizona Wildcats, 23 marzo 2014, San Diego, California

UCLA Bruins v Florida Gators, 27 marzo 2014, Memphis, Tennessee