Attualità

Che la festa abbia inizio

Cronaca dal torneo che si avvia alla fine: gli spettatori tirano fuori il vestito buono, gli inglesi si immaginano a incoronare un nuovo Fred Perry (forse).

di Fabio Severo

“Signore e signori, come cortesia verso i giocatori, possiamo per favore tornare a seguire quest’incontro?”

Questa l’aria che tira nel quarto di finale dei poveri, mentre a neanche cento metri di distanza l’eroe di casa Andy Murray sta recuperando uno svantaggio di due set a zero contro Fernando Verdasco. Le esultanze lontane che accompagnano la lunga ma inesorabile risalita di Murray fino alla vittoria per 7-5 al quinto contagiano gli spalti mezzi vuoti del Court n. 1, dove si sta disputando il derby che garantirà per la prima volta nella storia alla Polonia un semifinalista in un torneo dello Slam. I connazionali in lotta sono Lukasz Kubot, 31 anni e numero 130 miracolosamente scivolato tra le larghe maglie del tabellone decimato, e la rising star Jerzy Janowicz, che alla fine vince facile in tre set. Dopo si scambiano le maglie, si abbracciano a lungo, piange uno, forse un po’ anche l’altro. In un’atmosfera a metà tra l’ultima domenica di campionato e l’ascolto di una trasmissione clandestina di Radio Londra, il pubblico rimasto dentro aspetta i cambi campo solo per leggere sui tabelloni gli aggiornamenti sul punteggio dell’altro incontro.

Henman Hill, così chiamata d’après Tim Henman, il tennista britannico più vincente. Ma il record è svaporato con l’ascesa di Murray, assieme all’esagerato soprannome di Timbledon, quindi la collinetta non sanno più come chiamarla.

Molti spettatori hanno invece optato direttamente per disertare il match e arrampicarsi sulla collina con lo schermo che mostra Murray-Verdasco, nota come Henman Hill. Nome oggi dibattuto perché a suo tempo coniato d’après Tim Henman, il tennista britannico più vincente degli ultimi decenni con le sue quattro semifinali a Wimbledon, ma il cui record è ormai svaporato con l’ascesa di Murray, assieme all’esagerato soprannome di Timbledon, quindi la collinetta non sanno più come chiamarla. Per quanto si tratti di semplice bivacco di fronte a uno schermo, anche l’accesso al praticello si svolge con le modalità da collegio militare proprie di qualsiasi altra attività del luogo, e basta arrivare leggermente in ritardo per non trovare neanche un fazzoletto di terra per stare in piedi e si finisce cacciati via anche da lì, poiché ogni centimetro è presidiato e non appena si sosta dove non è permesso si viene immediatamente invitati a circolare. Resta l’opzione di seguire brandelli di match in costante movimento, salendo e scendendo dalla collina e passando di continuo sotto lo schermo, ma non appena ci si ferma è questione di secondi prima di venire prontamente rimossi.

Il fermento attorno a Murray, per quanto in fondo sia scozzese e non un Englishman puro come Henman, è comprensibile poiché sono 77 anni che un britannico non vince Wimbledon, da quando Fred Perry nel 1936 conquistò il suo terzo titolo consecutivo. Perry che poi ha sempre bisticciato con l’All England Club, che lo vedeva male per le sue origini working class e le sue maniere sul campo non da perfetto gentiluomo. Perry ha raccontato nelle sue memorie di quando nel 1934, dopo aver vinto il titolo contro l’australiano Crawford, dagli spogliatoi sentì un membro del Club commentare con dispiacere che la vittoria non era andata al migliore tra i due uomini. Insomma ai sudditi di Sua Maestà poi ci sono voluti 50 anni per dedicargli una statua e rimangiarsi lo snobismo con cui gli avevano negato la gloria in patria.

Tra i giornalisti d’esperienza con l’arrivo dei quarti e delle semifinali cominciano a tirare fuori i completi buoni, forse perché invitati a riti e pratiche di cui a me non è dato di conoscerne l’esistenza.

Difatti piuttosto che di gloria sembrerebbe trattarsi del lungo cammino verso un’investitura, l’acquisizione di un titolo nobiliare conferito con la corte stretta attorno a sorridere e a celebrare il nuovo eletto: una grande cerimonia il cui significato appare noto ai più che circolano tra questi campi, ma non a tutti i parvenu che vengono ammessi tra queste mura per la prima volta. Lo noto anche perché mentre il mio abbigliamento con l’andare avanti del torneo non muta in alcun modo, molti tra i giornalisti d’esperienza con l’arrivo dei quarti e delle semifinali cominciano a tirare fuori i completi buoni, forse perché invitati a riti e pratiche di cui a me non è dato di conoscerne l’esistenza.

Un lieve senso d’inadeguatezza mi accompagna sempre nei miei giorni a Church Road: già il mio badge, della categoria più bassa tra le tre previste per la stampa, riporta la dicitura “Rover”, che poi significa girovago, vagabondo. Un’etichetta che sarebbe già sufficiente a minare la certezza del mio diritto di essere lì, ma che si somma alla quotidiana richiesta di badge supplementari a cui sono costretto per accedere ai due campi principali, il non avere una postazione di lavoro a mio nome, il ristorante dei giornalisti che, forse allo scopo di evitare adunate sediziose, non ha schermi che mostrano le partite. Poi tanti piccoli episodi, quelle sfumature che possono turbare se colte nel giorno sbagliato, come quando ai controlli sicurezza arrivo buttando lì uno scambio di parole di cortesia: «Good morning, how are you?», ma la risposta, essendo già le 12.30 passate, è «Good afternoon, maybe». Per non parlare degli innumerevoli colpi di sonno che mi sorprendono seduto tra gli spalti, gli occhiali da sole a proteggere la lotta contro la letargia, il disagio di ridestarsi non pensando serenamente “wow, sono proprio stanco”, ma facendo solo pensieri paranoici sul timore di essere stato visto appisolato, la speranza che le lenti scure abbiano celato la défaillance ai colleghi attorno.

Del Potro da quando a Roma ha regalato a papa Francesco la racchetta con cui ha vinto l’U.S. Open non ne ha più azzeccata una, e forse è giunta l’ora di incassare l’indulgenza del pontefice connazionale.

La ristretta capienza della tribuna stampa del Centre Court in questi ultimi giorni determina quindi selezioni e liste d’attesa, e io mi ritrovo non ammesso all’incontro di Murray e a quello tra Djokovic e Tomas Berdych. Li seguo da un desk miracolosamente libero, alla mia sinistra una giornalista indiana che picchia la tastiera del suo pc in modo disperato, forse perché inchiodata dentro quel cubicolo; a destra un collega molto più quieto, che segue gli incontri indossando le cuffie. Mi attrezzo anche io per godermi un assaggio di squisita telecronaca in puro stile tea time, solo che il mio vicino sta seguendo le partite sul circuito interno che è senza commento, mentre io voglio ascoltare la BBC. Il problema è che il segnale del canale televisivo è quasi dieci secondi in ritardo rispetto a quello interno che segue il collega, quindi se resto sulla telecronaca sono condannato a vedere i punti che sul suo schermo finiscono prima che sul mio, per cui tocca alla fine tocca anche a me ipnotizzarmi con il semplice audio ambiente della partita, il rumore secco della pallina, il silenzio, la voce annoiata dell’arbitro che annuncia il punteggio. Lentamente il mantra di quel paesaggio sonoro mi conquista e comincio a scoprire dettagli, la cosa più bella è il respiro continuo di un raccattapalle che deve avere un microfono molto vicino al suo posto a fondocampo, e quindi tutto il drammatico vittorioso quinto set di Murray finisce per essere accompagnato dal ritmo minimalista del suo affanno soffocato.

Il quarto di finale di Djokovic si risolve nella consueta demolizione (o autodistruzione) dell’avversario, e adesso il line-up delle semifinali maschili vede il serbo contro un Del Potro col ginocchio sofferente dopo essersi schiantato contro la sedia dell’arbitro un paio di match addietro, e poi Murray contro Janowicz. Due partite in apparenza chiuse, i cui esiti dovrebbero ripristinare l’ordine con una finale tra le prime due teste di serie. Ma i match di questi giorni, dove si vedono così tanti cadere a terra in lacrime e sgranare gli occhi travolti dai loro stessi successi, forse preludono a altri improbabili esiti. Janowicz non ha mai giocato un incontro di tale importanza, e questo potrebbe tanto voler dire un disastro come un’esaltazione agonistica dalle conseguenze ignote; Del Potro da quando a Roma ha regalato a papa Francesco la racchetta con cui ha vinto l’U.S. Open non ne ha più azzeccata una, e forse è giunta l’ora di incassare l’indulgenza del pontefice connazionale.

Le due semifinali femminili (Marion Bartoli che vince con Kirsten Flipkens e Sabine Lisicki che passa contro Agniewska Radwanska) hanno presentato la bizzarra situazione di quattro contendenti di cui nessuna ha mai vinto uno Slam in carriera, e non era mai successo nella storia. Quartetto anomalo, una sola top ten tra loro, tutte giocatrici europee (ma questo ormai è un fatto molto frequente), tre su quattro bionde, poche pose o idiosincrasie divistiche, molta dedizione. Una sobrietà sul campo la cui eccezione è stata ovviamente il turbine ossessivo compulsivo di Marion Bartoli, che ha terrorizzato pubblico e avversaria col suo agonismo venato di sindrome di Tourette. Mentre la vedevo in campo mi è dispiaciuto non ascoltare i telecronisti BBC e i giri di parole che avranno tentato per esprimere lo sconcerto di fronte alla furia cieca di Marion; posso solo immaginare un ampio uso di “odd” e “peculiar” per descrivere il suo portamento in campo. A questo punto sarebbe bello che vincesse lei il torneo, anche solo per vedere in che modo si troverebbe a celebrare, e con che facce la premierebbero.